massimo bordin

Il quasi unanime riconoscimento che la cultura e la stampa italiane hanno riservato in queste ore alla figura di Massimo Bordin si rispecchia, per così dire capovolta, nel quasi unanime consenso della maggioranza giallo-verde alla morte decretata per Radio Radicale da quel “gerarca minore” (come proprio Bordin definì il sottosegretario Vito Crimi, con inarrivabile precisione), cui è stata commissionata – per ragioni di bilancio, ufficialmente – la liquidazione della più originale esperienza di editoria politica dell’ultimo mezzo secolo. Se le cose rispettassero il corso degli eventi e la logica delle decisioni la morte di Bordin avrebbe semplicemente anticipato, come un triste annuncio, anche la morte della radio di cui per decenni ha rappresentato la voce più caratteristica. È molto probabile che sarà così. 

Ma è anche possibile, vogliamo augurarci, che la notizia della morte di Bordin induca una tardiva resipiscenza in qualche giudice di quel burocratico tribunale del popolo che a Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama sta regolando i conti con tutta l’editoria di opposizione e, in generale, di partito, a nome di un “non partito”, il M5S, che come tutte le insorgenze antipolitiche delle nostre democrazie malate – da Trump a Duterte, passando per i Casaleggio boys – concepisce e esercita il governo come potere e l’opposizione come rivolta e in ogni caso non tollera - né da maggioranza, né da minoranza - il “disordine” pluralista della politica e dell’informazione e meno che mai, quindi, un’impresa editoriale che di quel pluralismo, di quell’ambizione di dare voce a tutte le voci diverse e contrarie della società e delle istituzioni, ha fatto il proprio inconfondibile marchio di fabbrica.

Posto che per ragioni di bilancio Radio Radicale andrebbe non liquidata, ma tenuta in vita, se si confronta il costo della sua convenzione a quello del (non) servizio, che la Rai (non) assicura per la trasmissione delle sedute parlamentari, l’alibi rigorista e mercatista con cui il governo giustifica questo taglio (“cammini sulle sue gambe”, “vada sul mercato”…) suona oscenamente grottesco, come – mutatis mutandis – quello moralista dell’o-ne-stà in bocca a dei veri professionisti della democrazia di scambio e della compravendita di voti in cambio di pensioni o di redditi di cittadinanza.

Anche per questa ragione l’esempio di Radio Radicale appare così insopportabile: perché rappresenta da decenni un esperimento sociale uguale e contrario a quello del clan Casaleggio, quello dell’utilizzo degli strumenti di comunicazione “di parte” e di “partito” come mezzi di alfabetizzazione politica generale. Che è l’esatto contrario, appunto, dell’utilizzo della rete e dei sofisticati dispositivi digitali dell’editoria 4.0, da parte di una srl formalmente "apolitica", come strumenti di controllo e di condizionamento di massa. Radio Radicale è una enciclopedia illuminista, Rousseau una macchina di propaganda goebbelsiana. Radio Radicale è l'agorà dei cittadini. Rousseau l'orwelliana fattoria degli animali.

Radio Radicale è sopravvissuta ai travagli e alla polverizzazione settaria del movimento politico radicale, anche grazie alla saggezza di un direttore, Alessio Falconio, capace per anni di non farla sprofondare nell’abisso aperto dalla morte di Pannella e di evitarle un destino tristissimo da house organ della fazione vincente. Rischia però di non sopravvivere all’attacco del Governo – non il primo della sua storia, ma il più temibile e ideologicamente “necessario” – in assenza di un atto autonomo del Parlamento, dove i numeri per il rinnovo della convenzione probabilmente ci sono e devono solo trovare il modo per essere contati. Il M5S minaccerebbe su Radio Radicale la crisi di governo? Vediamo…

Tocca a centinaia di parlamentari che ogni giorno si sono svegliati con “Stampa e regime” di Massimo Bordin decidere se difendere questo esempio di “stampa” o acconciarsi essi stessi a diventare un esempio di questo “regime”.

@carmelopalma