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L’Italia può fallire, le libertà che conosciamo, di cui godiamo senza curarcene, possono sparire e viviamo in una fase talmente pericolosa che l’impegno politico non è più un’opzione, ma quasi un dovere.

Per decenni abbiamo vissuto nell’illusione che il benessere in cui viviamo, e le istituzioni inclusive che lo hanno propiziato e garantito, fossero una variabile indipendente della storia. Non è così, si può fallire, e se non invertiamo la tendenza politica in corso quasi sicuramente falliremo.

Agli inizi del ‘900 l’Argentina era un paese ricchissimo, più prospero della Gran Bretagna e con la popolazione meglio istruita di tutta l’America Latina. Oggi è un paese che fatica ad uscire da decenni di oligarchie che lo hanno impoverito, determinandone l’arretramento nel consesso mondiale.

A cavallo del primo millennio la Repubblica di Venezia era il posto più ricco e avanzato del pianeta, crocevia di commerci tra Oriente e Occidente; con una popolazione in costante crescita, superava città come Londra e Parigi. Venezia era un luogo nel quale fiorivano innovazioni tecnologiche, scientifiche e giuridiche, come l’antesignana della prima società per azioni, la “commenda”, che veniva costituita per singole spedizioni, e che mettendo insieme due soci, uno di capitale e uno d’opera, aveva consentito il progresso dei traffici commerciali e promosso la nascita di una nuova classe mercantile che avrebbe preteso e ottenuto la partecipazione agli affari politici della città. Spinte da questi fattori, le istituzioni veneziane erano divenute via via più inclusive, e ciò aveva innescato quello che Daron Acemoglu e James A. Robinson definiscono il “circuito virtuoso” in quel capolavoro che è Perché le nazioni falliscono.

Nulla sembrava potesse arrestare le magnifiche sorti e progressive dell’esperimento veneziano, eppure a un certo punto la tendenza si invertì, l’aristocrazia riuscì a recuperare quote di potere che aveva dovuto condividere con altre classi, la repressione s’infittì, le istituzioni politiche si trasformarono, da inclusive che erano divenute, in estrattive, e così fu anche di quelle economiche: il commercio venne nazionalizzato, la sua tassazione aumentata e da quel momento la città iniziò quel declino inesorabile che ne ha fatto ciò che è oggi, un museo a cielo aperto che vive delle “mance” elargite da una ricchezza che è prodotta altrove.

L’Italia appartiene ancora a quel novero di fortunati paesi che – a un certo punto della propria parabola storica – sono riusciti a trasformare le proprie istituzioni politiche da estrattive in inclusive, ponendo le basi per il successivo lungo ciclo di sviluppo economico e civile. Per noi la tornata positiva si è verificata durante il processo di unificazione nazionale, e si è confermata nel secondo dopoguerra, in larghissima parte grazie all’adesione al processo di integrazione europea, che ha garantito e continua a garantire la natura inclusiva delle nostre istituzioni, e indirettamente il nostro ancoraggio alle catene globali del valore, fuori dalle quali ci attenderebbe un destino da Argentina o Venezuela.

E tuttavia oggi in Italia è in corso una lotta per il reddito e le istituzioni guidata da élite il cui obiettivo dichiarato è disarticolare i vincoli istituzionali, soprattutto sovranazionali, in cui ci muoviamo, che non fa mistero della propria ideologica contrarietà a tutto ciò che ci ha guadagnato prosperità economica e libertà politica. Si tratta infatti di un blocco di potere, perché questo è ormai la maggioranza parlamentare gialloverde e il governo sua espressione, che detesta le quattro libertà fondamentali europee, sulle quali per decenni abbiamo costruito un ordinamento costituzionale al cui centro sono valori, per citarne alcuni, come la dignità della persona, la libertà di movimento, la concorrenza come strumento di benessere economico e di meritocrazia, e al cui presidio abbiamo posto una governance istituzionale fondata su deleghe di sovranità, separazione di poteri, democrazia. Tutti principi ormai disconosciuti da una larga porzione dell’elettorato italiano e quotidianamente picconati dalla maggioranza parlamentare che ne è espressione. Perché cos’altro sono, se non negazione in radice di essi, la continua polemica contro i “tecnici”, le istituzioni dell’Unione Europea, la democrazia intermediata, il “mercato” e la globalizzazione, la libertà di migrare?

L’élite nazionalista oggi al governo potrà mutare composizione nei prossimi mesi, ma non sarà un fenomeno passeggero. Per continuare a vivere e prosperare userà tutto il potere che ha per disinnescare i vincoli e gli obiettivi concepiti dall’ordinamento liberaldemocratico che disconosce, lavorando per scalfirlo e ottenere anche quei poteri che al momento non ha, come ad esempio monetizzare il debito pubblico, sottoporre a referendum i trattati internazionali, nazionalizzare imprese private.

Ogni giorno la predicazione e l’azione di questa élite producono piccole differenziazioni dal corso ordinario delle liberaldemocrazie, come testimoniato, ad esempio, dalla riforma della governance dell’Inps, dall’esproprio dei diritti delle minoranza parlamentari in sede di discussione del bilancio dello Stato, dallo snaturamento del ruolo della Consob attraverso la defenestrazione del suo vertice, dalla negazione del valore vincolante della convenzione con Autostrade per l’Italia, oppure dall’esibizione propagandistica dello “scalpo” del nemico Battisti.

Tutto ciò è parte del tentativo di costruire un ordine alternativo entro il quale le nuove élite “rivoluzionarie” possano estrarre risorse dagli Italiani garantendosi la permanenza al potere. Servirà quella che gli studiosi sopra citati definiscono “congiuntura critica”, perché tutte queste micro-differenziazioni possano detonare e farci definitivamente deragliare dal circuito virtuoso in cui viviamo da due secoli almeno. Non è detto che accada, ma è assai più verosimile di prima che possa accadere.

La storia procede alla rinfusa, non è lineare, e per dirla con Montale “non è magistra di niente che ci riguardi”, ma certamente non è finita, e le prossime elezioni europee potrebbero già esserne uno snodo cruciale.