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Giovedì 3 Novembre l’Alta Corte del Regno Unito ha accolto il ricorso dell’imprenditrice Gina Miller, prima firmataria della “sfida” al Governo sulla modalità di attivazione dell’Articolo 50, il cavillo del Trattato di Lisbona che farà ufficialmente scattare la “Brexit”. Theresa May, alcuni giorni dopo il suo insediamento, aveva deciso che l’esecutivo avrebbe innescato l’Articolo 50 senza passare da un voto del Parlamento. Westminster sarebbe comunque chiamato in causa per votare l’abrogazione delle normative europee nell’ordinamento britannico, come l’European Communities Act del 1972.

La questione non è puramente formale. Gli equilibri sono molto diversi: numerosi deputati, al contrario dei loro elettori, erano favorevoli al Remain e potrebbero votare secondo coscienza e non secondo il “mandato” avuto durante il referendum - in cui, peraltro, le circoscrizioni erano differenti rispetto a quelle delle elezioni generali.

Sebbene questa decisione possa sembrare una momentanea sconfitta per i sostenitori della Brexit, in realtà può far loro comodo: il gotha di Vote Leave, defilatosi dietro la May (che sosteneva il Remain) dopo il voto, ha bisogno di tempo. Se Bruxelles spinge per affrettare le procedure, a Londra si preferisce avanzare con più cautela, soppesare le notizie che arrivano ogni giorno, osservare l’andamento della sterlina e dei mercati. Sotto il Big Ben hanno molto di più da perdere che nei pressi dell’Atomium.

È probabile che il Governo faccia ricorso e che il procedimento passi alla Corte Suprema, composta per l’occasione da 11 giudici che decideranno sulla questione dai primi di dicembre. Nigel Farage, leader dell’UKIP e principale euroscettico del paese, ha annunciato una “marcia da 100.000 persone” per far rispettare la volontà popolare in quei giorni.

La sentenza della High Court, se da un lato aiuta Downing Street a fare melina, dall’altro complica parecchio le cose. Innanzitutto perché non è chiaro su cosa si dovrà votare e come: un “pacchetto Brexit” varato dal Governo, o Westminster avrà il potere di plasmare i futuri rapporti con l’UE? Sarà un voto simil-referendum, “sì-no”, o si voterà comma per comma, emendamento per emendamento? Non si sa, perché i custodi della legge non scritta non hanno lasciato indicazioni in merito.

Inoltre il voto parlamentare potrebbe creare una crisi di governo, una spaccatura nei partiti e portare a nuove elezioni. Molti parlamentari infatti potrebbero fare riferimento al “Discorso agli elettori di Bristol” di Edmund Burke sui principi della democrazia rappresentativa e votare secondo coscienza, in barba a quanto indicato il 23 Giugno dal proprio elettorato (seppure con collegi differenti).

Una decisione simile potrebbe creare paradossalmente problemi soprattutto al Partito Laburista, ufficialmente schierato per il “Remain”, che nel 70% dei suoi collegi elettorali ha visto i cittadini votare contro l’establishment europeo. Se i socialisti dovessero astenersi o scegliere di rigettare l’eventuale “pacchetto May” potrebbero aprire le porte del Parlamento all’UKIP, oggi relegato ad avere un singolo deputato (Douglas Carswell) grazie al sistema elettorale basato sui collegi uninominali in un sistema maggioritario puro.

Jeremy Corbyn, leader del Labour, è particolarmente ambiguo sul da farsi: all’indomani della decisione dell’Alta Corte il suo vice, Tom Watson, ha dichiarato che i socialisti non bloccheranno la Brexit se questa dovesse passare da un voto parlamentare. Corbyn, pochi giorni dopo, ha invece detto che sarebbe disposto a votare contro, qualora Theresa May non riuscisse a garantire l’adesione al mercato unico, questione tutt’altro che semplice. Una minaccia che dovrebbe impaurire il Governo ma potrebbe ritorcerglisi contro, facendo infuriare l’elettorato delle zone costiere dell’est, roccaforti Labour, ma al tempo stesso ferocemente euroscettiche. Il leader laburista, riconfermato di recente da un vero e proprio plebiscito, è stato più volte accusato di ambiguità nei confronti del referendum stesso. Secondo l’ex Ministro ombra Chris Bryan, nel segreto dell’urna Corbyn avrebbe votato Leave, e altri hanno accusato il suo staff di un vero e proprio sabotaggio della campagna referendaria.

Ma se Atene piange, Sparta non ride: anche Theresa May si trova un bel bastone tra le ruote nella difficile pedalata che allontana Londra da Bruxelles. Se è riuscita a ricompattare un partito spaccato dal Referendum e orfano di Cameron, ora la sfida è più grande: riunire un paese sempre più diviso e trovare una soluzione a un problema sempre più complesso. Il futuro è incerto: all’Hard Brexit proposta dalla May potrebbe sostituirsi una non-Brexit, con un voto di rigetto da parte di Westminster. Ma, in tal caso, gli euroentusiasti si ritroverebbero un paese nel caos, con una potenziale crisi politica e i partiti euroscettici sempre più all’arrembaggio. In entrambe le situazioni i mercati potrebbero non sorridere più alla capitale finanziaria del continente.