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In periodi di turbolenze politiche è uso e costume della classe dirigente italiana usare la politica economica come catalizzatore di voti. Nulla di anormale, sia ben chiaro. Qualsiasi teoria delle scelte pubbliche prevede come assunto che il politico tenda a massimizzare il consenso. Non vi è, perciò, da stupirsi se le leve di politica economica sono rivolte spesso alla redistribuzione, o alla soddisfazione d‘interessi particolari.  

Eppure, quando questa pratica diventa l’unica stella cometa dell’azione di un Governo, i primi a doversene preoccupare sono i politici stessi. Pressati dalle agende politiche contingenti, essi pensano di utilizzare la leva fiscale, o la regolamentazione, per cercare di diminuire la pressione negativa montante. Anche qui nulla di nuovo. Ma ciò che lascia sbalorditi è la totale assenza di dibattito puntuale e fattuale. Dibattito che in paesi democratici e civili avviene sulla stampa, organo di controllo indispensabile per il corretto funzionamento del processo – legittimo – d’iniziativa politica.

Da settimane, la discussione di politica economica è incentrata, guarda caso, sulle pensioni. La “pensione allegra”, in Italia, è sempre stato il mezzo principale usato dalla politica per ottenere consenso a spese delle casse pubbliche. E' fin troppo fuori luogo doverlo ricordare, in un paese in cui le cronache dei giornali, nei decenni passati, raccontavano le gustose usanze di prepensionamenti a età irrisorie. Si nominavano anche le miss baby pensione, come il lettore attento e amante del buon umore ricorderà, grazie a quella fonte di libertà che sono i social network, se ben utilizzati, in mancanza di una stampa vigile.

In questo contesto storico e culturale, la discussione di politica economica del Governo, in un periodo di crescita stentata - prevista attorno all’1% nel 2016, di investimenti stagnanti, di scarsità di risorse pubbliche generalizzata, di banche fragili - è totalmente incentrata sulla questione di cambiare la Legge Fornero, con l’intenzione di render più agevole uscite anticipate, o su proposte repentine, come quelle del premier Matteo Renzi, sull’aumento di 80 euro delle pensioni “minime”, ovvero le "pensioni sociali", secondo i tecnici.

La prima proposta porta la firma del Presidente dell’INPS, Tito Boeri, rispettato studioso dell’economia del lavoro. Nella sua opinione, la legge Fornero avrebbe avuto come effetto indesiderato quello di bloccare troppi lavoratori anziani nella forza lavoro, a detrimento nel breve periodo dell’occupazione dei giovani. Interventi che introducano più flessibilità, è la ratio di Boeri, permetterebbero di avere un “doppio dividendo”: aumento dell’occupazione dei giovani e neutralità sui conti pubblici nel lungo periodo. Anche ammettendo che il ragionamento sia corretto, ci si dimentica che nessun intervento è mai senza un costo. In questo caso il costo sarebbe la perdita di occupazione per i seniors, e il costo per le casse dello stato nel breve periodo, che va finanziato in qualche modo, sia esso con minori spese, maggiori entrate, o deficit. In più, la ratio di Boeri pare per lo meno sospetta, in un paese in cui massicci pre-pensionamenti, come quelli degli anni '70 (nel '69, '70, '74, '76 etc), sono sempre stati seguiti da effetti nulli sul tasso di occupazione dei giovani, come il grafico sottostante mostra chiaramente. Se programmi massici come quelli ricordati sono stati inutili nel passato, non si vede come interventi marginali possano avere effetti ora! Al massimo, scusateci di ricordarlo, saranno neutrali, in altre parole incoerenti rispetto agli obiettivi, oltre a costare nell’immediato.

La teoria economica ricorda come l‘eterogeneità delle competenze e dei compiti affidati ai lavoratori impediscano di considerarli perfettamente sostituibili, soprattutto nel caso di lavoratori giovani e anziani, che hanno solitamente competenze, conoscenze e compiti diversi nelle imprese. Applicare all'aggregato delleconomia la logica del modello super-fisso, qui magistralmente raccontato da un Sandro Brusco d’annata, che al massimo può andare bene la Pubblica Amministrazione è, per chi scrive, un errore piuttosto grave. Si aggiunga che un’economia come quella italiana, con un tasso di occupazione attorno al 55%, e non da ieri, ha scarsità di mezzi per garantire anni di rendite, con aspettative di vita elevate, finanziate da chi lavora. Ancora poche persone, fra cui molti addetti ai lavori, hanno compreso che, anche nel sistema nozionale italiano, le pensioni di oggi sono pagate dai contributi dei lavoratori di oggi. Più basso è il numero di persone che pagano contributi, più basso è il montante di trasferimenti pensionistici disponibile. È matematica applicata all’economia, non un’opinione.

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Tassi di occupazione negli anni 70 per gruppo di età e genere

Ci si permetta, invece, una sola battuta sull’idea di destinare 80 euro ai pensionati sociali. Dai dati Istat risulta che essi siano circa pari a 850 mila persone, alla fine del 2014. 80 euro per ogni pensione sociale, usando la metodologia della serva, portano il conto annuale per le casse dello Stato all’incirca a un miliardo di Euro. Molti dei pensionati sociali, quasi il 50%, percepiscono più assegni pensionistici. Nel caso in cui davvero si volesse insistere nella proposta, sarebbe necessario renderla davvero “focalizzata” sulle persone in vero bisogno di assistenza. Un miliardo non sono bruscolini, per un bilancio che è già gravato da altre misure temporanee con copertura piuttosto dubbia.

In un momento in cui gli investimenti pubblici latitano, come Renzi stesso ha ben ricordato, ogni sforzo “marginale” deve essere concentrato su maggiori investimenti, almeno secondo la logica keynesiana che il premier vuole seguire, incoraggiato anche dalle recenti analisi Imf e Ocse. Continui annunci di prestazioni sociali per i gruppi di volta in volta considerati meritevoli di supporto e altri bonus culturali di dubbia efficacia, sono la lista dei desideri di un miliardario in bolletta. 

Lasciar cadere entrambe le idee è un dovere per chi crede che le risorse impiegate in programmi insignificanti a livello aggregato siano inefficaci, seppure utili a raggranellare consenso. Esiste un momento in cui le priorità sono altre. Si chiamano trade-off, anche se spesso politici e policy-makers cercano di scappare da una delle più elementari verità economiche.