Nel lungo periodo saremo tutti morti: la 'geopolitica keynesiana' nella post-Europa
Istituzioni ed economia
La 'geopolitica keynesiana' non esiste, ma la si potrebbe inaugurare prendendo come 'case study' le scelte dell'Unione Europea per far fronte alla crisi dei migranti. Il fondamento sarebbe l'applicazione della battuta dell'economista di Cambridge, "nel lungo periodo saremo tutti morti", alle relazioni internazionali: in caso di shock esogeni, trovare espedienti per evitare di affrontare i problemi strutturali 'endogeni' che la crisi mette a nudo, senza curarsi dei costi futuri.
L'accoglienza dei rifugiati siriani, e più in generale la crisi in Medio Oriente e in nord Africa, impongono scelte politiche europee unitarie, che potrebbero essere prese solo se legittimate politicamente da un elettorato europeo. Poiché non esiste un'Europa politica federale del genere, ed è improbabile che esisterà mai, le istituzioni comunitarie procedono a tentoni, cercando compromessi che si dimostrano invariabilmente fallimentari. Nel frattempo, pressato dall'aggravarsi della situazione, ciascun governo procede di testa sua con iniziative unilaterali, come il ripristino delle frontiere interne a Schengen, o di politica estera, di intelligence e perfino militari, potenzialmente in contrasto tra loro. E' inevitabile: ogni governo risponde al proprio elettorato e ai sistemi di interessi che lo sostengono, perché questi soggetti sono legittimati a destituirlo, mentre le istituzioni europee no. Ma ciascun intervento unilaterale, per quanto informale e 'provvisorio' tende a svuotare di significato i trattati dell'Unione, accelerando un processo di fatto di disgregazione.
Questo strano aggregato sovrananzionale che è l'Unione europea, stretto tra l'incudine e il martello di un dramma umanitario epocale e il rischio di disintegrazione, non avendo legittimità interna per badare alle proprie frontiere e fare politica estera, spera ora di cavarsela affittando sovranità dalla Turchia. Ancor meno che in economia, però, nelle relazioni internazionali esistono pasti gratis. La Turchia è un paese in cui vige un regime autoritario, a diretto contatto con i conflitti regionali mediorientali e di religione nell'Islam, gravato da un rapporto ambiguo con l'Isis e lacerato da una guerra civile latente con i curdi. E' illusorio credere che il prezzo richiesto da un simile soggetto per risolvere il problema migranti possa limitarsi ad una transazione monetaria. Già Erdogan ha iniziato a chiedere all'Ue contropartite politiche, come la la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e l’apertura di nuovi capitoli negoziali per l'adesione all’Unione. Altro obbligo informale, c'è da immaginarlo, è il silenzio assenso alle manovre turche in medio oriente, che potrebbero essere deleterie per gli interessi europei. In ogni caso, quelle turche suonano come "offerte che l'Ue non può rifiutare", perché rifiutarle implica sbattere la faccia contro il solito problema imposto, in questo capitolo della saga, dalla crisi dei migranti: decidere se diventare un unico soggetto politico, oppure ritornare ai vecchi stati nazionali.
La crisi dei fuggitivi dalla Siria, e aggiungiamoci pure quella dei migranti economici (definizione spesso inapplicabile, data la situazione politicamente ed economicamente fallimentare dei territori di provenienza), come sottolinea Carmelo Palma, sarebbe del tutto sostenibile per l'Unione europea, salvo problematiche legate all'incompatibilità delle sharie islamiche, di cui acuni migranti potrebbero essere cultori, con la libertà individuale. Tuttavia l'emergenza dei migranti è solo un effetto drammatico di una crisi molto più profonda e angosciante che riguarda la tenuta e il futuro dell'Unione europea.