Le elezioni politiche dello scorso giugno hanno portato l’Akp, il partito islamico di Erdogan, a perdere la maggioranza in Parlamento: una democratica battuta d’arresto per i sogni autocratici del presidente, che però pone degli interrogativi pressanti sulla stabilità. Un governo di minoranza di Erdogan contro tutti potrà reggere quattro anni?

turchia hdp

Mettiamola così: per il momento il primo risultato del voto turco è stato ricordare al Popolo della Mezzaluna com’era la politica prima dell’avvento di Recep Tayyip Erdogan. Certo più aperta e con meno nubi sulla tenuta democratica del Paese, ma anche più vulnerabile quanto a stabilità politica, con tutto quello che ne può conseguire a livello di tenuta economica.

Sembra quasi paradossale, ma le incertezze e i ritardi che hanno portato alla formazione del governo dimostrano una cosa: sarà anche il grande sconfitto delle elezioni del 7 giugno, ma il Presidente Recep Tayyip Erdogan è ancora l’unica figura in grado di dare garanzie concrete al suo Paese. E su questo punto i turchi potrebbero tornare a riflettere molto presto.

I risultati delle urne parlano chiaro: l’Akp, il Partito islamico-moderato per la Giustizia e lo Sviluppo fondato proprio da Erdogan, non è riuscito a conquistare i 276 deputati che gli sarebbero serviti per fare il governo da solo. Però ha portato a casa un 40,9% dei consensi, che non sembra affatto una percentuale da sconfitti. Il vero problema, ancora una volta, è nell’opposizione: segno che, se Erdogan ha perso, è successo perché ha sbagliato lui e non perché gli è stata contrapposta un’alternativa politica - con l’eccezione del caso curdo, di cui parleremo fra poco.

Il Chp, il Partito Repubblicano del Popolo, di orientamento laico e kemalista e più di ogni altro quello che si avvicina all’eredità di Mustafa Kemal Atatürk, pur raggiungendo un ragguardevole 25% e 130 deputati, non è, nei fatti, in grado né di rappresentare una minaccia per Erdogan, né di ambire a un ruolo di leader nella minoranza parlamentare. Un vero e proprio pachiderma politico, che almeno dal 2002 al 2007 è stato una delle ragioni del successo di Recep Tayyip Erdogan.

I risultati più interessanti in chiave elettorale sono certamente rappresentati dai nazionalisti del Mhp e soprattutto dai curdi dell’Hdp. I primi hanno drenato voti all’Akp, soprattutto quelli degli elettori spaventati dalla deriva confessionale presa dalla Turchia di Erdogan, passando da 53 a 80 seggi. I secondi, invece sono riusciti nell’intento, non facile, di raccogliere i voti non solo dei curdi, ma anche della cosiddetta “terza Turchia”, ossia quella parte del Paese che prima disertava le urne o votava un candidato indipendente perché non si sentiva rappresentata dalle forze in gioco.

Selahattin Demirtas, il giovane leader dell’Hdp, che qualche media straniero ha incautamente soprannominato “l’Obama turco”, ha portato avanti la campagna elettorale con grande intelligenza. Ha parlato di diritti e si è rivolto a tutte quelle persone evidentemente non raggiunte dai messaggi politici “tradizionali” - in primo luogo donne vittime di violenza, omosessuali, disoccupati, gente che, nonostante il grande miracolo economico messo in piedi dalla Turchia in questi anni, ha visto peggiorare le proprie condizioni di vita.

I risultati non si sono fatti attendere. Il Partito per i Popoli Democratici ha ampiamente sfondato la soglia del 10%, necessaria per entrare alla Tbmm, la Grande Assemblea Nazionale Turca, conquistando il 13% dei consensi e 80 deputati. Un risultato storico, che ha dato vita a un’ubriacatura e a una festa durate giorni. Però, all’atto pratico, oltre a un’opposizione accesa, l’Hdp può fare veramente poco.

Il problema è che, passata la festa, ci sono dei conti da fare e per la Turchia sono conti allegri fino a un certo punto. Erdogan è stato ridimensionato, per la gioia di chi temeva una islamizzazione del Paese e la sua, chiamiamola così, esuberanza in campo internazionale. Però adesso la Mezzaluna è fortemente instabile e questa situazione di respiro potrebbe non durare, con il rischio, secondo alcuni analisti non remoto, di ritrovarsi Erdogan al comando, se non più forte di prima, almeno non così irrimediabilmente indebolito come molti credevano.

Gli scenari aperti sono, di fondo, tre. Il primo è che i partiti riescano a mettersi d’accordo e che si riesca a formare, se non una coalizione, almeno un governo di minoranza che duri tutta la legislatura. Il secondo è che si formi un governo di minoranza temporaneo in grado di traghettare il Paese per qualche mese o per un paio di anni e che poi si vada al voto anticipato. Il terzo è che si vada alle urne già in autunno, con il rischio di trovarsi di nuovo con un nulla di fatto. Rimane fin troppo evidente che la seconda e la terza ipotesi rappresentano, di fatto, una vittoria per Recep Tayyip Erdogan, che così dimostrerebbe una cosa risaputa da tutti: ha plasmato così tanto la Turchia a sua immagine e somiglianza, che adesso il Paese non può tagliarlo fuori come un qualsiasi leader caduto in disgrazia.

Lui lo sa perfettamente e infatti da dopo il voto ha cambiato completamente atteggiamento. Da “leone” dell’arena politica, come ha abituato tutti per anni, si è trasformato in pochi giorni nel Presidente del compromesso, invitando le parti politiche a raggiungere un accordo nell’interesse del Paese. L’alternativa sono le elezioni anticipate, che Erdogan potrebbe invocare, autorizzato dalla legge in caso di nulla di fatto. E a quel punto, con l’economia in ombra e il ricordo dell’instabilità degli anni Novanta, la Turchia potrebbe pensare che un po’ di democrazia in meno val bene un governo che duri quattro anni.