Chi non ha un lavoro, e chi non lo cerca più. Dai dati Eurostat la fotografia dell'occupazione in Italia
Innovazione e mercato
Alcuni giorni fa Eurostat ha diffuso il comunicato stampa con i dati aggiornati al 2013 sull'occupazione nei paesi dell'Unione europea. Per la prima volta dopo oltre dieci anni il tasso di occupazione in Italia torna sotto il 60 per cento. Per esattezza si attesta al 59,8 per cento. E in questo modo ci allontana ancora dall'obiettivo della strategia “Europa 2020”. I principali media italiani hanno subito ripreso questo dato, ma senza attribuirgli una enfasi eccessiva. E a pochi giorni di distanza la notizia è ormai archiviata.
Eppure avevamo impiegato ben dieci anni per aumentare di otto punti il tasso di occupazione (dal 55,7 per cento nel 1998 al 63 per cento nel 2008, che segna l'inizio della crisi). E se mai riusciremo a riprendere il percorso pre-crisi, cioè a realizzare un incremento di 0,8 punti percentuali in media all'anno (cosa che date le condizioni attuali dell'economia e le prospettive reali di ripresa non darei affatto per scontata), nell'arco temporale che ci separa dal 2020 potremo aumentare complessivamente il tasso di occupazione di circa 6 punti, arrivando vicino al 66 per cento. Ma saremmo comunque sotto l'obiettivo di “Europa 2020”, che è fissato al 67 per cento. Se nel 2014 le condizioni dovessero peggiorare ancora e il tasso di occupazione dovesse ridursi ulteriormente, il target per il 2020 sarebbe completamente fuori portata. Per altro, non bisognerebbe sottovalutare il fatto che solo altri tre paesi, nel 2013, hanno registrato un tasso di occupazione sotto la soglia psicologica del 60 per cento: Spagna, Croazia e Grecia.
Altri aspetti emergono dal dettaglio dei nuovi dati sull'occupazione, soprattutto nello spaccato delle diverse classi di età. In Italia, nel 2013, il tasso di occupazione nella classe di età 15-24 anni è stato di appena il 16,3 per cento, con una riduzione di oltre otto punti rispetto al 24,7 per cento nel 2007, cioè prima della crisi. In Olanda i giovani occupati nella stessa classe di età sono il 62,3 per cento, in Danimarca il 53,7 per cento, in Germania il 46,8 per cento e nel Regno Unito il 46,7. Siamo anche sotto alla media dell'Area euro, che è il 31,6 per cento. Ma c'è un dato, in particolare, che fa riflettere, e riguarda la continua contrazione dell'occupazione nelle classi di età più giovani accompagnata da un aumento degli individui nella condizione NEET.
“Not in Education, Employment or Traning” (NEET), sotto questo acronimo anglosassone, apparentemente innocuo, si nascondono le radici di un fenomeno tanto pericoloso quanto probabilmente sottovalutato per la società e l'economia italiana. Secondo Eurostat, nel 2013, in Italia i giovani di età 20-24 anni che non lavorano, non studiano, ne fanno corsi formativi di qualche tipo (insomma, i giovani che non fanno proprio niente, almeno formalmente), sono il 26 per cento del totale di quella classe di età. Anche questo dato ci accomuna ai paesi della zona euro che sotto il profilo dell'economia reale sono più problematici (la Grecia con il 28,9 per cento di NEET e la Spagna con il 22,8 per cento) e ci allontana da quelli più competitivi e virtuosi, dove in testa troviamo Olanda (solo il 7,1 per cento di NEET), Danimarca (7,5 per cento) e Germania (8,3 per cento).
L'elevato numero di NEET non è soltanto un problema che investe la sfera sociale di oggi, ma è anche e soprattutto una ipoteca sull'economia e l'occupazione italiana di domani. Se sempre meno giovani lavorano, studiano e si formano a qualche tipo di esperienza di lavoro, significa non solo meno “cervelli” italiani in futuro, ma anche sempre meno lavoratori italiani dotati di qualifiche e competenze. Per altro, quelli che ci sono ora, di cervelli, sono sempre in procinto di “fuggire” dal nostro paese. E in moltissimi lo hanno già fatto. In queste condizioni non potremo che avere una Italia fatta di lavoratori sempre meno qualificati. Quello che, fino a trenta anni fa, era un apparato industriale e produttivo che riusciva a reggere la competizione, sebbene nell'ambito di un manifatturiero tradizionale, sembra destinato a occupare una posizione di subordine nell'ambito delle reti e delle filiere che governeranno l'industria europea e mondiale di domani.
È un fatto molto serio quello dei NEET e della scarsa occupazione delle classi più giovani. E non lo si può più esorcizzare immaginando i tradizionali schemi di prepensionamento degli anziani per fare posto ai giovani. Gli stessi schemi con i quali abbiamo risolto grandi e piccole crisi aziendali nel passato e con cui abbiamo sempre cercato di mettere una pezza ai problemi dell'occupazione è ormai fuori gioco. Probabilmente, non è una soluzione nemmeno l'esasperarazione della flessibilità in entrata lasciando inalterato tutto il resto e condannare alla perpetua precarietà chi ha avuto la sfortuna di nascere nell'ultimo ventennio del secolo scorso.
Eppure, la vecchia vulgata secondo cui i “posti di lavoro” per i giovani si possono avere solo se i più anziani vanno prima in pensione ogni tanto torna a farsi sentire in Italia. Da ultimo ne hanno parlato anche alcuni esponenti del governo a proposito della pubblica amministrazione. Ma proprio i dati Eurostat sull'occupazione smentiscono questo mantra. Non esiste nessun trade-off tra occupare gli anziani e occupare i giovani. La chiave interpretativa è un'altra, e passa anche per la struttura e le norme che regolano il mercato del lavoro. I paesi europei più avanzati sul fronte del mercato del lavoro ne danno un ottimo esempio. In Danimarca, Germania, Olanda, Svezia e anche nel Regno Unito, dove vigono regole del mercato del lavoro più flessibili e moderne, i tassi di occupazione sono più alti della media dell'area euro, sia nelle classi di età più anziane sia in quelle più giovani. In questi stessi paesi l'occupazione nelle classi giovani si è ridotta meno anche nel corso della crisi degli ultimi anni. Viceversa, in Italia, Grecia, Spagna, Francia e Portogallo, i tassi di occupazione sono contemporaneamente più bassi sia nella classi di età più anziane sia in quelle più giovani. E l'occupazione giovanile ha anche subìto di più i colpi della crisi economica.
La soluzione dei problemi dell'occupazione non può essere trovata “a parità di regole” del mercato del lavoro, all'interno di una cornice normativa e consuetudinaria ormai vecchia (incluso il sistema delle relazioni industriali e sindacali), desueta e tale da rendere il mercato rigido, asfittico e non più in grado di funzionare. Il vecchio mercato del lavoro, con le vecchie regole, sembra una coperta corta: per occupare i giovani bisogna pre-pensionare gli anziani. Cambiare radicalmente le regole significa sostituire la vecchia coperta corta con una nuova coperta più lunga, di tessuto diverso, che sia in grado di coprire tutti, a partire dai giovani.
Purtroppo in molti ancora si ostinano a credere nel mito del mercato del lavoro come una coperta corta, e danno per scontato che debba rimanere sempre così, anche in futuro. Non so se è conseguenza di una cocciutaggine ideologica mai sopita, oppure se, più semplicemente, quella vecchia cocciutaggine ha lasciato ormai il posto a qualcosa di peggio: la rassegnazione.