La Corte di Giustizia Europea riconosce il "diritto all'oblio" di un ricorrente, ingiungendo a Google di non indicizzare più le informazioni (peraltro esatte) sul suo conto. Quelle notizie, dunque, rimarranno online, ma non più consultabili. Diritto all'oblio contro libertà economica e di espressione: questa sentenza potrebbe cambiare Internet per sempre, e non in meglio. Vediamo perché.

Diritto oblio

Immaginate una biblioteca. Enorme, diffusa su decine di edifici, con milioni di scaffali, centinaia di milioni di volumi, trilioni di pagine. Una gran parte dello scibile umano è lì, sotto i vostri occhi, oltre la barriera dell'ingresso. A voi serve un titolo. Cercate una monografia sulla politica indiana degli ultimi 10 anni, perchè ci sono appena state le elezioni e volete capirci di più. Il volume è lì, da qualche parte fra milioni di altri. Però, da ieri, non potete più chiedere al bibliotecario di aiutarvi a trovarlo, perchè la Corte di Giustizia Europea gli ha ingiunto di non dare più accesso a quell'opera, su richiesta di un tizio citato nel libro, una figura secondaria, a cui non piace che quelle informazioni siano disponibili.

Questo è l'effetto della sentenza emessa nel caso Google contro AEPD (il garante privacy spagnolo).

Il fatto in questione originava dalla richiesta di un signore spagnolo di rimuovere dal sito internet di un quotidiano, La Vanguardia, informazioni (vere) concernenti delle difficoltà finanziarie che aveva incontrato in passato, poi superate. Siccome dopo anni quelle informazioni continuavano a venire fuori digitando il suo nome nella stringa di ricerca di Google, il medesimo signore aveva anche chiesto all'autorità iberica garante per i dati personali di ordinare a Google di non renderle più disponibili.

Il garante spagnolo gli aveva dato ragione, nonostante un tribunale interno avesse disconosciuto legittimità alla sua pretesa nei confronti del giornale. Insomma, la notizia poteva rimanere sul sito de La Vanguardia, ma non essere indicizzata dal motore di ricerca. L'azienda statunitense aveva impugnato il provvedimento dell'autorità spagnola, facendo finire il caso alla CGE.

E la CGE ieri ha concluso che nessuno tocchi i libri, piuttosto si metta agli arresti il bibliotecario. I punti cruciali della decisione di merito sono due, al netto della pur importante questione sulla giurisdizione, che però qui tralascio.

Il primo è che i giudici hanno concluso che l'attività del motore di ricerca Google «consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell'indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come trattamento di dati personali (...) e che, dall'altro lato, il gestore di detto motore di ricerca deve essere considerato come il «responsabile» del trattamento summenzionato». La lettera della legge interpretata, in questo caso la direttiva privacy, stabilisce che la titolarità sui dati personali, e le conseguenti responsabilità, ricadano su chi «determina le finalità e gli strumenti del trattamento di dati personali».

Per la Corte, che sul punto ha scavalcato perfino l'opinione espressa dal suo Avvocato Generale, anche Google, non solo l'editore che ha pubblicato originariamente la notizia, controlla i contenuti che indicizza, portandone dunque la responsabilità in ambito privacy. Ma se da ieri l'attività di indicizzazione dei contenuti da parte dei motori di ricerca non è più neutra ai fini del diritto della privacy, essa continua ad esserlo, ad esempio, per la direttiva sul commercio elettronico (Articolo 12), in forza della quale ai fornitori di servizi della società dell'informazione non rispondono dei contenuti che essi trasportano ("mere conduit"). E già qui si intravede una incoerenza logica nel sistema di norme europee, anche se la direttive e-commerce stabilisce esplicitamente di non applicarsi alle questioni regolate dalla direttiva privacy.

Il secondo punto della sentenza è quello che ha l'impatto ancora maggiore. La Corte ha ritenuto che il legittimo interesse di Google a indicizzare e trattare dati personali pubblicati lecitamente da altri debba sempre soccombere nei confronti del diritto fondamentale alla privacy del "notiziato". Del pari soccombente è il diritto all'informazione di terzi, a meno che il "notiziato" non sia un soggetto pubblico. Impostato così il discorso, la Corte estrae dal cilindro delle dispozioni vigenti il "diritto all'oblio", e cioè il diritto dell'interessato a non vedere collegate al suo nome delle informazioni che lo riguardano, ancorchè vere, trattate lecitamente e senza avergli arrecato alcun pregiudizio.

Qui le considerazioni da fare sono molte.

In primis, viene pesantemente compressa la libertà economica di Google. L'interesse legittimo a trarre valore dall'attività di organizzazione delle informazioni deve sempre cedere il passo alle richieste degli interessati che esercitano i propri diritti fondamentali, contraddicendo l'indirizzo giurisprudenziale che la medesima Corte di Giustizia aveva inaugurato con la sentenza ASNEF, nella quale ritenne contraria al diritto europeo una norma spagnola che proibiva del tutto l'utilizzo di dati non ancora pubblici per finalità di marketing diretto. La libertà economica delle società di direct marketing andava, giustamente, tutelata. Quella di Google, invece, parrebbe di no.

In secondo luogo, il diritto all'oblio non esiste nella normativa privacy europea in vigore, e la sua introduzione nel nuovo regolamento è stata a lungo dibattuta prima di venire ridotta a poco più che petizione programmatica. In generale, le informazioni non hanno il guinzaglio, e non possono essere ritirarte idietro una volta pubblicate, per cui garantire a chiunque lo desideri, sol che lo desideri, il diritto a far sparire dalla rete cose che lo riguardano non pare facilissimo.

Contro Google, la Corte ha interpretato estensivamente il vigente diritto alla cancellazione dei dati, svincolandolo però dai requisiti dell'inesattezza e incompletezza previsti dalla direttiva per il suo esercizio (Articolo 12, comma 1 b). Le informazioni riguardanti il ricorrente nel caso di specie erano infatti tutte corrette e accurate. Ciononostante, egli ne può reclamare la cancellazione. E non da parte del quotidiano che le aveva pubblicate, bensì dal motore di ricerca che le ha aggregate semanticamente intorno al suo nome. Insomma, le notizie circa la sua insolvenza restano online, ma Google non deve più renderle ritrovabili.

Che cosa accadrebbe – e accadrà – se un individuo chiedesse a Wikipedia di cancellare una delle sue voci, benchè corretta ed informata, perchè non gli piace? Seguendo la logica dei giudici del Lussemburgo, Wikipedia dovrebbe censurare quella voce dell'enciclopedia. Per questa via, i motori di ricerca diventano il braccio privato della censura perpretata sotto l'egida di una particolare branca del diritto pubblico, qual è, appunto quello della privacy.

Anche qui, i giudici comunitari hanno platealmente sconfessato i consigli di buon senso dell'Avvocato Generale, secondo il quale «Un fornitore di servizi di motore di ricerca su Internet esercita legalmente tanto la sua libertà di impresa quanto la sua libertà di espressione quando rende disponibili su Internet strumenti di localizzazione delle informazioni sulla base di un motore di ricerca. La costellazione particolarmente complessa e difficile di diritti fondamentali che questo caso presenta osta alla possibilità di rafforzare la posizione giuridica della persona interessata ai sensi della direttiva riconoscendole un diritto all'oblio. Ciò vorrebbe dire sacrificare diritti primari come la libertà di espressione e di informazione».

La Corte è stata sorda a quegli argomenti, e ha deciso di percorrere la strada accidentata di un diritto non ancora normativizzato, dai contorni poco chiari e dalla realizzazione tecnica incerta. Ciò che per essi è parso contare, nell'ecosistema di internet, non è la fonte della notizia bensì il motore di ricerca che la indicizza, soprattutto se è dominante e si chiama Google.

Si tratta, in definitiva, di una sentenza strabica, che vede il diritto alla privacy ma dimentica tutti gli altri, soprattutto quello alla libertà di informazione ed espressione, sul quale è copiosa la giurisprudenza di un'altra corte europea, quella dei diritti dell'uomo di Strasburgo, alla quale il diritto comunitario deve uniformarsi, come previsto sia dall'articolo 6 (3) del TEU, che dall'articolo 52 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE. Fiat privacy, pereat internet, insomma.

Ora provate a immaginare le conseguenze di una sentenza della CEDU, su ricorso di un quotidiano a cui è stato ingiunto di soddisfare il "diritto all'oblio" di un notiziato, che stabilisca la precedenza della libertà d'informazione sul diritto alla privacy. Il cortocircuito tra le due corti e i due sistemi giuridici a cui presiedono sarebbe, a quel punto, totale.