Il reddito di cittadinanza è l’ennesima anomalia italiana nel welfare europeo
Innovazione e mercato
È difficile intendersi sul nome per qualcosa che non esiste. Gli omologhi europei del cosiddetto “reddito di cittadinanza” dovrebbero essere il Revenu de solidarité active francese, l’Arbeitslosengeld tedesco, il Jobseekers allowance inglese. Ognuno può googlare e farsi un’idea (Wikipedia, siti governativi ecc.).
Se è così, però, l’Italia politica si conferma prodiga di paradossi. Il “reddito di cittadinanza”, cavallo di battaglia dei populisti a 5 stelle anti-establishment, sarebbe ispirato dal “reddito minimo condizionato” suggerito all’Italia proprio dal famigerato establishment. Ci sarebbe materia per una divertente teoria cospirativa, ma rischierebbe, di questi tempi, di essere presa sul serio.
La famosa lettera Trichet-Draghi a Berlusconi poneva al punto C, a complemento della riforma del diritto del lavoro, “un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro”. Il Fondo Monetario Internazionale, tra le riforme necessarie all’Italia, in uno studio di cui ci parla l’Espresso, suggeriva “una riforma degli ammortizzatori sociali che porti all'istituzione di un sussidio universale per chi cerca impiego” (L’Espresso, 28 luglio 2015). C’è la raccomandazione 92/441 dell’Europa, che allora era la Cee, per “l’introduzione [...] di un reddito minimo garantito” in Italia. Nelle ore più drammatiche di trattative, la Commissione europea invitò la Grecia, con il beneplacito della Troika, “a introdurre un reddito minimo garantito”. Il Ministro per gli affari sociali greco ha risposto che era una “roba da Africa” (Maurizio Ferrera su Il Corriere, 10 giugno 2015). Peccato che in Africa questa forma di welfare, non c’è, e in Europa sì.
La riforma del welfare del lavoro in senso europeo piace anche ai “neoliberisti”, anche a quelli di Chicago, e non parlo dell’imposta negativa di Milton Friedman. Luigi Zingales scrisse (Prefazione italiana a Salvare il capitalismo dai capitalisti) che l’introduzione di un reddito minimo garantito sarebbe dovuta essere una delle prime riforme da fare in Italia. Tra i 10 punti del programma di Fare per Fermare il Declino, che si presentò alle elezioni del 2013, troviamo “sussidio di disoccupazione e formazione per tutti”.
Va detto che, in Italia, il reddito minimo garantito è in agenda dalla fondazione della Repubblica, quando il Report di Beveridge arrivò letteralmente con l’esercito inglese, che si incaricò di tradurlo per il lettore italiano. Di reddito minimo garantito discute (criticamente, per la verità) Ernesto Rossi in “Abolire la miseria”. La questione torna a galla varie volte, ma sempre nelle pagine riposte dei giornali, in un trafiletto.
Gli addetti ai lavori scuotono la testa per l’occasione perduta dalla Commissione Onofri voluta da Prodi nel 1996, che doveva produrre un riordino del welfare italiano e una forma di “reddito di cittadinanza”. La stessa misura doveva essere il complemento (mai realizzato) della Riforma Biagi. Alla parte mancante del sistema di welfare italiano stava lavorando anche il giuslavorista D’Antona, assassinato dalle Br; nel volantino di rivendicazione gli imputarono, tra le altre deliranti cose, lo studio di una forma di reddito minimo garantito.
Non risulta che il M5S abbia mai spiegato quali sono i vantaggi e le ragioni del welfare europeo universalistico né che abbia argomentato intorno alla necessità di una riforma del welfare italiano. Pare piuttosto che abbia lasciato credere che il "Partito del Popolo", espugnato finalmente il Palazzo, avrebbe dato soldi a tutti i poveri. Del resto, ci sta. Un governo populista non può essere in linea con un welfare di tipo nord-europeo, che presuppone un’idea della disoccupazione, che nasce da un’idea delle virtù mercato e del ruolo dello stato nell’economia.
I benefit della disoccupazione costituiscono una rete di sicurezza per gestire la disoccupazione (e, in seconda battuta, certo, la povertà). Svolgono la loro funzione, perché sono dinamici, nel senso che non inchiodano le persone (come fa la cassa integrazione) a un posto di lavoro ormai inesistente e fasullo, ma che deve esistere per esigenza ideologica (la negazione stessa della disoccupazione). Il welfare universalistico consegna questo messaggio ai disoccupati: se hai perso il posto “non è colpa tua ma delle ondate del mercato. Sostengo il tuo reddito mentre cerchi un'altra occupazione e, magari finanzio corsi di formazione per prepararti al futuro” (copio queste parole dell’economista Michele Boldrin, intervistato il 5 dicembre 2012 da Il Giornale di Sicilia). Il welfare discrezionale e corporativo italiano coinvolge diversi attori (sindacati, politici locali, ministri sottosegretari, imprenditori), finendo per tornare più utile ai mediatori che ai disoccupati.
Il welfare universalistico non difende il posto, ma il reddito. Questo fa bene al lavoro, alla generazione di ricchezza (e dunque alla riduzione delle povertà); e fa bene però anche al lavoratore, che non è tenuto artificialmente attaccato ad un posto di lavoro che ormai non c’è, con una sorta di accanimento nobile ma irrealistico, che alla fine scoraggia la ricerca di un’altra collocazione mentre incoraggia il lavoro in nero. Invece per principio ideologico, la disoccupazione non è “riconosciuta”, è rimossa, il welfare è inteso come creazione di posti di lavoro da parte dello stato. La tendenza implicita in questa visione è la trasformazione del lavoro in welfare, ovvero in lavoro fasullo, che significa “valorizzare il lavoro”. I costi sono più alti, l’efficienza del sistema più bassa, e il clientelismo impazza. Le capacità individuali, inoltre, vengono bruciate. Una rete di welfare, al contrario, le valorizzerebbe, nel senso che permetterebbe un incontro tra capacità e aspirazione e lavoro.
Lo scopo di questi strumenti è rispondere in modo neutrale e formale alla disoccupazione, che può riguardare chiunque e non necessariamente è un fatto da “servizi sociali”. In Danimarca i servizi sociali intervengono per le persone che restano per anni disoccupate. Alla povertà, in generale, non si risponde con i sussidi, ma con la creazione di ricchezza. Un’economia che funziona riduce la povertà, e può permettersi un buon welfare; un cattivo welfare è invece lo specchio, l’indizio, la concausa, di un’economia che non funziona bene. E questo è il caso italiano.
Per gestire la disoccupazione che è prodotto dell’economia moderna, i benefit universalistici vanno connessi a una strategia complessiva, di cui sono parte i centri per l’impiego, che si occupano di far incontrare domanda ed offerta di lavoro. Il “reddito di cittadinanza” (se è una cosa seria) non si fa in una finanziaria. Posto che la spesa italiana per il welfare non è inferiore a quella degli altri paesi, il problema è organizzarla diversamente. Occorre dunque una riforma organica, non proclami. In Italia bisognerebbe capire che, su questi temi, abbiamo tutto da imparare dall’esperienza degli altri paesi europei, anche per recuperare il tempo perduto a baloccarsi nell’eurocomunismo e nel cattocomunismo, di cui oggi sono eredi i populisti.
“Meno pensioni, più welfare”, suonava il titolo di un libro di Tito Boeri. Non è possibile tenere insieme il sistema di welfare tedesco (o francese) e quello italiano, senza far saltare i conti. Chi scrive è però tra quelli che sospettano che il fine di questo governo rosso-bruno sia proprio quello di ottenere, nella migliore delle ipotesi, una garanzia europea per perpetrare una cultura assistenzialistica arretrata, sventolando, ironia della sorte, una misura tipica del welfare europeo. Nella peggiore, la fine dell’euro, il ripristino dei confini, non per paura dei migranti, ma dell’Europa.