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La campagna elettorale per le Politiche di marzo 2018 sarà il prossimo terreno di scontro – al di là della pluralità delle sigle partitiche in competizione – tra due ideologie in conflitto nelle competizioni di tutto l’Occidente. Da una parte il flusso escatologico del populismo (nelle sue diverse declinazioni di destra e di sinistra) e dall’altra il freno catecontico del liberalismo democratico.

Vediamo di chiarire: la filosofia politica ci aiuta a comprendere – e penso prima di tutto a Eric Voegelin e alla sua Nuova Scienza Politica - la natura rivoluzionaria di un perfettismo convinto della necessità di una palingenesi radicale del reale fondata su assiomi e ricette tanto estreme quanto semplici e di un correlato neo statalismo protettivo che tenta di rispondere con maggiore spesa pubblica alle nuove sfide della tecnologia e della robotica – intuite come apocalittiche - che vanno appunto esorcizzate a suon di provvidenze. Di contro, sempre le categorie generali ci aiutano anche a intendere il senso di un neo riformismo che, paradossalmente, sembra intestarsi il compito epocale di conservare per il futuro il metodo liberale e lo stato di diritto attraverso il governo degli strumenti della globalizzazione dei mercati e lo sviluppo della competitività; in modo, si dice, di far lievitare la torta della ricchezza ed includere così sempre più lavoratori nel sistema. 

Proprio per questo, dunque, l’aspetto economico e l’attenzione ai conti pubblici risulta oggi sempre più centrale per liberali e democratici: non si tratta di pagare pegno ai grandi vecchi del capitale mondiale e a fantomatici burattinai del sempreverde complotto demoplutocratico ma di continuare ad operare secondo i principi della società aperta che hanno consentito lo sviluppo di Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale. In Europa, ad esempio, partendo dalla messa in comune del carbone e dell’acciaio e attraverso l’organizzazione del mercato agricolo comunitario si è riusciti a vincere - grazie al diffondersi della ricchezza e del ceto medio - anche la battaglia politica che contrapponeva (ieri come oggi) il personalismo e i diritti “naturali” storicamente determinati contro il collettivismo statolatrico uniformante. Lo scontro, in breve, tra lo Stato di Diritto e la Ragion di Stato.

Tornando all’oggi, si può ben affermare che in Italia la declinazione concreta più significativa del conflitto sopra delineato corre lungo la categoria del lavoro, tanto da poter radicalizzare la dialettica politica, in modo da meglio sviscerarla, tra laburisti e neo luddisti. Come non considerare, infatti, seguaci contemporanei del mitico Ned Ludd (l’operaio di Leicester che nel 1779 infranse un telaio per protesta e sabotaggio contro la produzione industriale spinta dai macchinari) coloro che sembrano cullarsi e rassegnarsi allo stesso tempo lungo le tristi note di una narrazione catastrofica secondo la quale la rivoluzione industriale in atto porterà sempre meno lavoro, tanto da rendere necessario l’intervento perequativo e risarcitorio di strumenti gravanti sulla fiscalità generale quali il reddito di cittadinanza grillino ed il reddito di dignità berlusconiano.

Per fortuna continuano a prodursi proposte e visioni altre che, fondandosi sull’esperienza del passato, tentano di riportare in auge e riprodurre il più importante risultato del pensiero democratico, sindacale e socialista dell’800 e del primo 900: l’essere riusciti a pacificare operai e macchine nel segno dello sviluppo industriale, dell’occupazione di qualità e dell’affermazione di diritti concreti quali la diminuzione dell’orario settimanale di lavoro e l’obbligatorietà della contribuzione previdenziale. E proprio in tale contesto, a mio parere, va inquadrata la battaglia dei democratici italiani per l’introduzione del salario minimo legalmente individuato. Lungi dal rassegnarsi alla pensione per i giovani e capaci ci si concentra quindi – puntando sulla ripresa dell’economia e del lavoro sostenuta dalla tenuta dei conti pubblici, dalla decontribuzione delle nuove assunzioni (totale al Sud) e dalla centralità assegnata al contratto subordinato a tutele crescenti – sulla determinazione legale della paga oraria che i datori di lavoro debbono corrispondere ai dipendenti. Tale strumento, già operativo in molti Paesi UE e in Gran Bretagna, era stato originariamente previsto dalla legge delega sul Jobs Act ma è rimasto fuori dai decreti attuativi.

Veniamo al merito: come è noto in Italia non esiste un salario minimo legale e il livello dei “minimi” è demandato alla libera contrattazione tra le parti sociali senza che i contratti collettivi vengano, una volta stipulati, assorbiti in un atto normativo che li renda obbligatori. La contrattazione collettiva, infatti, non ha efficacia erga omnes, non ha valore in sé per tutti i lavoratori del settore e della categoria interessata, in quanto è rimasto inattuato, per evidenti resistenze sindacali ad un paventato controllo pubblico, il dettato dell’art. 39 della Costituzione che prevede la registrazione dei sindacati e statuti che sanciscano un ordinamento interno a base democratica.

La registrazione, infatti, ha lo scopo di assicurare più forza alla contrattazione attraverso il riconoscimento della personalità giuridica. Ad oggi, quindi, i sindacati italiani sono semplici associazioni non riconosciute che stipulano contratti efficaci solamente nei confronti degli iscritti. È infatti la giurisprudenza, con la sua prassi, a riconoscere che tale efficacia si estenda indirettamente a tutti i lavoratori, sulla base dell’assunto che i “minimi” individuati dal CCNL sostanzino quel diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del proprio lavoro e sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa che è sancito dall’art. 36 della Carta costituzionale. E’ proprio per la natura di diritto comune dei contratti italiani che questi non sono obbligatori per l’imprenditore, il quale potrebbe decidere, anche senza il consenso preventivo dei sindacati storici, di non applicare nessun contratto collettivo o di applicarne uno creato ad hoc per la singola unità produttiva, facendo riferimento ad associazioni e rappresentanze poco note, senza alcun riferimento ai contratti nazionali di consueta applicazione.

In questo quadro frammentato, quindi, l’individuazione di un salario minimo legale potrebbe avere un fondamentale ruolo nella lotta contro questi veri e propri CCNL pirata che applicano livelli retributivi generalmente inferiori a quelli comuni del settore e che, purtroppo, grazie alla mancanza di regole chiare sulla rappresentatività sindacale e a causa di un pluralismo parossistico di sigle, sono sempre più competitivi ed utilizzati. La legge, insomma, indicherebbe una paga oraria sotto la quale il contratto diverrebbe automaticamente illegittimo. E ancora, il compenso orario minimo previsto per legge – che tra l’altro rientra tra gli obiettivi programmatici del PSE – potrebbe finalmente tutelare i non pochi lavoratori operativi in settori non coperti dalla contrattazione collettiva, quali gli stagisti e coloro che prestano la propria attività nell’ambito del lavoro autonomo e para subordinato.

Infine, al di là dei tecnicismi giuslavoristici e delle alchimie sindacali e contrattuali, la proposta laburista in questione ha il pregio di contrastare un’agenda politico mediatica fondata sulla paura, sul destino di disoccupazione che si racconta come irreversibile, sulla statizzazione dei bisogni economici degli individui. Riportare il dibattito sul lavoro e non sul sussidio significa, quindi, scommettere con fiducia sulla crescita dell’impresa e dell’impiego, significa puntare su una nuova proficua dialettica per lo sviluppo che contribuisca – anche grazie alla determinazione del valore legale della paga - all’aumento del reddito, dei consumi e del tenore di vita, alla riduzione delle diseguaglianze sociali. È questo il senso di uno strumento che indica con precisione una soglia sotto la quale la paga diviene miseria e sfruttamento.