Filo spinato

È dai tempi di Ricardo che gli economisti sono consapevoli che il commercio internazionale avvantaggia sia i paesi più avanzati che quelli meno avanzati. Le cose stanno diversamente al di fuori della cerchia degli specialisti, dove la prospettiva dell’abbattimento delle barriere doganali genera timori e reazioni di pancia, che sono puntualmente cavalcate dalla politica, la cui agenda ne è spesso influenzata.

Ne è fresca testimonianza l’opposizione al TTIP e al TPP, che a sentire molti – Greenpeace, per dirne una – avrebbero garantito affari d’oro alle multinazionali affossando le piccole imprese e penalizzando lavoratori e consumatori.

Nella campagna per le elezioni presidenziali, sia Donald Trump che Hillary Clinton – ne ha scritto recentemente The Economist – hanno espresso posizioni tutt’altro che amichevoli verso i trattati di libero scambio. Il primo ha invocato la necessità di alzare le tariffe verso le importazioni dalla Cina e dal Messico, mentre la candidata democratica ha revocato il suo iniziale sostegno al TPP. Né le cose sarebbero andate diversamente con al timone Bernie Sanders, secondo il quale i trattati commerciali siglati in tempi recenti dagli Stati Uniti sono stati “un disastro per i lavoratori americani”.

I sospetti nei confronti del libero commercio, il timore che esso avvantaggi le big corporations a scapito di cittadini e lavoratori, derivano dalla difficoltà di comprendere che lo scambio è, per definizione, un tipo d’interazione che avvantaggia tutti i partecipanti. Rimuovere le barriere al commercio significa far sì che i beni abbiano maggiore facilità di arrivare dove ce n’è bisogno; significa favorire la compresenza di più prodotti su uno stesso mercato, ampliando il ventaglio di scelta delle persone. È l’importazione di beni dall’estero che costringe le imprese ad abbassare i prezzi, permettendo ai consumatori di risparmiare. L’olio importato senza dazi dalla Tunisia permette al consumatore italiano di scegliere se pagare di meno la propria bottiglia di extravergine. E il denaro così risparmiato potrà essere diretto su consumi diversi e in tal modo creare nuova occupazione.

Ma non è forse vero che l’apertura dei commerci può provocare la perdita di posti di lavoro? Nel breve periodo è possibile e – nota ancora l’Economist – è quanto accaduto negli Stati Uniti dopo l’ingresso della Cina nel WTO. Tuttavia, la perdita di posti di lavoro nel settore manifatturiero pre-data in gran parte l’affermazione dell’export cinese, e può essere attribuita all’innovazione tecnologica che ha reso meno necessarie le occupazioni labour-intensive. L’ingresso della Cina nel commercio globale ha peraltro avuto effetti diversi su paesi diversi: Canada, Germania e Regno Unito sono andati decisamente meglio degli Stati Uniti, mentre Francia, Italia e Spagna hanno avuto una performance anche peggiore.

Politiche migliori possono aiutare il mercato del lavoro ad assorbire il colpo, favorendo la transizione verso nuove occupazioni. Su quali siano le politiche migliori c’è ovviamente disaccordo: l’Economist osserva ad esempio che per i paesi OCSE la media di PIL impiegato nelle active labour-market policies (centri per l’impiego, formazione, sussidi all’occupazione) è lo 0.6%, mentre gli Stati Uniti spendono un misero 0.1%.

Quel che è certo è che, se un aiuto può arrivare dalla politica, non sarà in virtù dei dazi. Un prodotto importato da un certo paese includerà componenti prodotte in paesi diversi. Ad esempio, circa il 40% del valore dei beni di consumo esportati dal Messico è aggiunto negli Stati Uniti. Un dazio sulle importazioni messicane finirebbe insomma per penalizzare le stesse imprese americane.

Inoltre, le barriere al commercio sarebbero altrettanto penalizzanti per i consumatori. Uno studio di Pablo Fajgelbaum dell’Università della California e Amit Khandelwal della Columbia University ha calcolato che, in un paese privato della possibilità di commerciare con l’estero, i più ricchi avrebbero in media un calo del potere d’acquisto del 28%, mentre il 10% più povero subirebbe un calo del 63%. Insomma, i primi a essere avvantaggiati dal commercio sono i meno abbienti.

Nicholas Bloom dell’Università di Stanford, Mirko Draca dell’Università di Warwick e John Van Reened dell’LSE hanno invece trovato che la concorrenza dovuta all’import cinese, mentre ha ridotto l’occupazione nel settore manifatturiero, ha allo stesso tempo spinto le imprese a innovare puntando di più sull’information technology. E questi sono benefici occupazionali a lungo termine: con le nuove tecnologie nascono infatti nuovi mestieri, nuovi modi di fornire valore alle persone. Basti pensare alla miriade di lavori che sono nati grazie al web.

Alla fine dell’Ottocento Herbert Spencer notava quanto fosse curioso che gli avversari del libero scambio si definissero “protezionisti”. Se la facoltà di scambiare il prodotto del proprio lavoro è una delle libertà fondamentali degli individui, allora impedire lo scambio è una forma non di protezione, bensì di aggressione: ai danni delle aziende che sono private della possibilità di espandersi, delle famiglie che vedono assottigliarsi i propri risparmi, ma anche degli stessi lavoratori.

Non sarà facile liberarsi dai pregiudizi contro la libera circolazione delle merci, che vanno spesso di pari passo con quelli contro la libera circolazione delle persone. Populismi altrettanto diffusi e altrettanto gravi, che sia le istituzioni europee che quelle americane farebbero bene a scrollarsi di dosso, se hanno realmente a cuore l’interesse dei propri cittadini.