logo editorialeL'unico vero problema per Renzi (o almeno l'unico che il premier sembri apprezzare come tale) oggi non sta a Bruxelles o a Francoforte, a Palazzo Madama o a Palazzo Koch, ma al Nazareno. Fuori dal PD, non c'è chi possa credibilmente ostacolare l'azione e l'inazione dell'esecutivo, né costringere Renzi a fare quello che non vuole o a non fare quello che vuole.

Il suo partito non è del tutto "suo", né sembra destinato a diventarlo. Il renzismo ha conquistato l'Italia e gli italiani, ma continua a essere subito come una faticosa e dolorosa necessità da una parte consistente della classe dirigente del PD, compresa quella ex diessina che è diventata togliattianamente renziana, da bersaniana e d'alemiana che era, per un senso razionale dell'opportunità, in un Paese che non perdona le sconfitte e gli sconfitti, ma assolve generosamente trasformismi e trasformisti assiepati dal lato giusto della storia, quello del vincitore.

Dal punto di vista culturale - della cultura politica e della cultura tout court - il PD non può certo dirsi convertito a quel renzismo "leopoldino" che appariva un concentrato di disordine mentale e ideologico, una traiettoria del tutto fuori linea rispetto alla parabola naturale della sinistra italiana e di cui rimangono ancora molte tracce nella narrazione del segretario Renzi, ma pochissime nell'azione del premier Renzi, costretto, per tenere insieme il PD e quindi anche la maggioranza, a dissociarsi e a contraddirsi, a strappare e a ricucire, in un avanti e indietro che ancora non grava sul suo personale consenso, ma già pesa sull'azione e sulla credibilità dell'esecutivo.

Esempi emblematici di questa tensione e della sua sostanziale irriducibilità sono proprio i due temi sensibili della giustizia e del lavoro, dove da mesi la sinistra PD - non solo quella "nemica", ma anche quella "amica" con cui l'altro ieri Renzi ha concordato la nuova segreteria - lo aspetta minacciosamente al varco. L'ennesima accelerazione data l'altro ieri da Renzi in Parlamento nel "discorso dei 1000 giorni" sembrava preludere alla fine dell'appeasement. La minaccia delle elezioni anticipate aveva destinatari precisi e tutti con targa PD. Ma è bastato un giorno e con la mediazione di ieri sull'art. 18 si è tornati punto e a capo alla perenne ricerca di un equilibrio impossibile e all'impapocchiamento di soluzioni ponte e di sintesi dorotee, che non risolvono nulla e spostano in avanti, a un nuovo rinvio, il momento del redde rationem. Così il piè veloce Renzi non raggiungerà mai la tartaruga delle riforme. Così, d'altra parte, da vent'anni le cose urgenti lasciano il passo all'eterna urgenza della (cosiddetta) stabilità politica, che è una sorta di crisma sacramentale del declino italiano.

L'emendamento presentato ieri dal governo al Senato dice che la delega che Renzi e Poletti dovranno esercitare sull'annosa questione dell'art. 18 comporterà la "previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio". Cosa vuol dire? Tutto e niente. La norma lascia spazio a qualunque soluzione, da quella Ichino (fine dell'articolo 18) a quella Boeri (decorrenza dell'articolo 18, così com'è, dalla fine del terzo anno di lavoro), fino teoricamente alla soluzione Landini, cioè all'estensione a tutte le imprese, comprese quelle con meno di 15 dipendenti, della tutela reale dal licenziamento illegittimo (cioè della reintegra) a decorrere da una certa data successiva (di un giorno, di un anno, di dieci anni?) all'assunzione del lavoratore tutelando. È una norma che promette a tutti qualcosa, ma non dà niente a nessuno.

Dopo il deposito dell'emendamento, ieri mattina, tutti cantavano vittoria, dall'NCD alla sinistra PD, cioè tutti continuavano a cantare la propria canzone, mancando quella del governo, che dovrà decidere in concreto - cioè sciogliere l'enigma e l'equivoco - entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge delega, che prima di essere approvata deve ancora passare dall'aula di Palazzo Madama e poi andare alla Camera. Campa cavallo. Nel pomeriggio, la guerra della propaganda si è spostata a favore del fronte riformista, al punto che Sacconi poteva annunciare urbi et orbi che "l'art. 18 è stato cancellato per i neoassunti". Che è un auspicio o una minaccia, non ancora un fatto. Infatti dopo poche ore il Ministro Poletti chiudeva e rinviava così il discorso: "Quando faremo i decreti attuativi prenderemo una decisione sull'art. 18". Appunto, quando?

@carmelopalma