Il Pd difende Errani e si contraddice. Una buona notizia
Editoriale
Dopo la sentenza di condanna Errani si è dimesso e il Pd, anziché ringraziarlo del gesto di responsabilità e augurargli di ribaltare in Cassazione l'esito dell'appello, ha fatto una cosa, a prima vista, molto "berlusconiana". Ha detto di credere nella sua innocenza e di volerla difendere anche contro la sentenza dei giudici, invitandolo a ritirare le dimissioni. Il fatto che le parole più nette e, per così dire, personali siano state quelle dei bersaniani - e dello stesso Bersani - non toglie che l'invito alla marcia indietro sia giunto dalla segreteria del PD al gran completo e che lo stesso premier si sia schierato alla fine da parte di Errani (con un argomento, invero, quello della presunzione di innocenza fino a condanna definitiva, più formale e meno compromettente di quello di altri suoi colleghi di partito).
Non v'è chi non veda che, nel caso di Errani, il PD ha scelto una linea molto diversa da quella in genere adottata rispetto agli "amici" - ultimo, il caso dei dirigenti e amministratori PD finiti in mezzo alla vicenda Mose - e sempre tenuta ferma rispetto ai "nemici", per cui il semplice avviso di garanzia è stato considerato un gravame incompatibile con l'esercizio di una carica pubblica. È opportuno che non solo gli scandali, ma anche le contraddizioni emergano per chiarire la natura di un problema - quello dei rapporti tra legittimazione politica e delegittimazione giudiziaria - che in Italia è stato comunemente risolto, a sinistra, nel senso di un pregiudiziale ossequio alle "verità" provvisorie e definitive dei tribunali e a destra interpretato in modo uguale e contrario, nel senso del pregiudiziale sospetto nell'imparzialità degli inquirenti e dei giudici.
In primo luogo - e questo bene si comprende nel caso di Errani - la difesa di un politico coinvolto in un caso giudiziario non ha un profilo puramente "garantistico". Non tutela i diritti processuali dell'imputato, ma la sua onorabilità dagli effetti dell'imputazione, contestandola in via di fatto e opponendo a essa argomenti forse discutibili, ma concreti. Rinnovare la fiducia in un politico indagato o condannato, in sé, non è un atto scontato, un adempimento penoso assolto per dovere d'ufficio. È una rivendicazione di responsabilità politica.
Non si può presumere, come ormai pare d'obbligo, che la difesa di un esponente politico sia una ipocrita confessione di complicità e non una sincera professione di fiducia nell'onestà di una persona "chiacchierata". In Italia è ormai considerato anomalo e sospetto che un partito non scarichi subito, ma difenda un proprio "inquisito", anche quando scelto - si immagina - con un qualche discernimento e investito del consenso (e della fiducia) di milioni di persone. Ed è considerato doveroso che un partito non discuta né delle accuse, né delle prove di colpevolezza, ma si limiti a prenderne atto, come se l'onorabilità di un politico (e del partito che rappresenta) rimanesse una questione politica solo finché non viene, per così dire, presa in carico dall'autorità giudiziaria.
In secondo luogo - in questo caso si potrebbero fare migliaia di esempi - le indagini non possono considerarsi, in linea di principio, un'unica notte nera in cui tutti i politici sono neri - tutti uguali, tutti presuntamente colpevoli, tutti "mascariati" da una sempre più ingombrante politicità - e in cui non rilevano le differenze o il peso e la diversa evidenza dei fatti, né il modo in cui le inchieste e i processi sono apparecchiati. Il PD ha scaricato Del Turco come Lusi, come se l'uno fosse l'altro e i rispettivi processi due pagine uguali della stessa giustizia giusta e della stessa Italia sbagliata. Non è affatto vero, e non bisogna fare finta di crederlo per "rispetto dei giudici".
A differenza di quanto imporrebbe la vulgata "giudiziariamente corretta" è perfettamente normale che in un Paese libero i provvedimenti dell'autorità giudiziaria (comprese le sentenze definitive) si discutano e si contestino, senza per questo attentare alla divisione dei poteri. È perfettamente normale che, dove vi sono, si vedano e si facciano le differenze, tra imputato e imputato, tra processo e processo, tra giudice e giudice. È a maggior ragione normale che questo avvenga in un Paese in cui le relazioni pericolose tra giustizia e politica, fino alla rivendicazione aperta di una sorta di tutela giudiziaria dell'equilibrio e della legalità costituzionale, hanno trasformato il ventennale corpo a corpo tra politici e magistrati, dentro e fuori dalle aule dei tribunali, nella "questione democratica" per eccellenza.
Quindi la difesa di Errani, a ben guardare, è una buona notizia e non dovrebbero essere solo gli innocentisti a rallegrarsene.