logo editoriale«A Sochi ribadirò la contrarietà dell’Italia a qualunque norma o iniziativa discriminatoria nei confronti dei gay, nello sport così come fuori dallo sport», rassicura Enrico Letta a chi vede nella trasferta sulle rive del Mar Nero per l’apertura dei giochi olimpici invernali un inopportuno inchino a Vladimir Putin. Non c’è motivo di dubitare che il nostro premier esprimerà al presidente russo le sue rimostranze in merito alle leggi anti-omosessuali emanate da Mosca (immaginiamo con quale preoccupazione il padrone di casa si prepari alla ramanzina); né che - come tiene a specificare il presidente del Consiglio - si tratterà di un’occasione importante per rinsaldare i legami economici tra le due economie: d’altronde era stato lo stesso Letta, durante il vertice italo-russo di dicembre, a garantire la sua presenza al grande evento, e qualche contratto in più fa sempre comodo, di questi tempi) oltre che per promuovere la candidatura di “Roma 2024”.

Eppure il nostro premier lì a Sochi non avrà modo di snocciolare le virtù delle infrastrutture della capitale italiana a Barack Obama, Angela Merkel, Francois Hollande o David Cameron, i quali hanno già annunciato di avere altri impegni. E non ci sono solo le leggi liberticide e le discriminazioni anti-gay - che sono pane quotidiano, nella Russia autoritaria di Putin - a fare da sfondo al boicottaggio dei “grandi” d’Occidente; le fiamme di Kiev, come ha spiegato Olivier Dupuis qui su Strade, lungi dall’essere un problema interno ucraino, delineano drammaticamente la faglia tra due sfere d’influenza, tra due “poteri” (Unione Europea e Federazione Russa) dei quali solo uno - il Cremlino, naturalmente - pare aver capito la posta in gioco.

La riluttanza europea a capire che la storia non è finita, e che per un continente che alle piccole sovranità nazionali ha saputo finora sostituire solo una grande burocrazia, sarà difficile, se non impossibile, inserirsi nelle dinamiche tra gli “imperi” (Russia, ma anche Cina, India, l’“impero democratico” Usa...) che continuano, oggi come ieri, a scandire il corso degli eventi. L’assenza di una voce comune europea sullo scacchiere internazionale non è un problema di oggi. Ma è ancora più grave ora, che la Russia, saldamente guidata dall’oligarchia dei siloviki e capace di mettere sul piatto della contesa risorse energetiche ed economiche gestite senza troppi scrupoli, stringe la presa sull’Ucraina e morde ai fianchi l’Ue. L’Italia (non solo l’Italia: anche la molto progressista Olanda invierà a Sochi re e premier, salvo sorprese) si rende dunque partecipe dell’ennesimo sfilacciamento europeo, impedendo la creazione di un fronte comune contro la festa putiniana.

Le spese folli per le Olimpiadi più costose di sempre, l’azzeramento dell’opposizione, i conflitti con le minoranze, l’omofobia di Stato, la morsa sull’Ucraina, persino la “clemenza” regale mostrata prima dei giochi: tutto si tiene, tutto concorre a delineare un sistema di potere e di valori che è (o dovrebbe essere) antitetico a quello europeo/occidentale, e che - complice la fiacca del Vecchio continente - è pronto ad aumentare l’intensità della sfida “esterna”.

Per ora, anziché delineare con i nostri partner una seria strategia di risposta, ci accontentiamo di partecipare alla grand soirée dello zar nella speranza di riportare a casa qualcosa. Tattica, questa, non troppo dissimile dalla tanto vituperata diplomazia delle barzellette e delle pacche sulle spalle teorizzata da Silvio Berlusconi (e che non ha dato i frutti sperati, anzi). Non è più partecipando al bazar delle grandi occasioni o infilandosi nelle photo opportunity che si fanno gli interessi nazionali: a muovere i flussi di capitali è l’immagine generale del Paese, non certo il presenzialismo (e lo stesso dicasi per la promozione delle olimpiadi romane). Non è “esserci”, che conta, ma “avere” visione e credibilità: i salamelecchi non servono a molto.