Ma la vera riforma è il funzionamento dei partiti
Editoriale
Tutte le discussioni italiane su quale sia il sistema elettorala più capace di garantire stabilità, governabilità e, in definitiva, un'azione democraticamente efficace ed efficiente delle Istituzioni, assumono indefettibilmente il connotato di una specie di esercizio di rimozione collettiva.
Accade sempre, infatti, che si tenda a sovrastimare l'importanza degli effetti riversati sul sistema dai meccanismi di trasformazione di voti in seggi e si perda di vista la relazione inversa, e cioè come e quanto il sistema, massime quello italiano, sia capace di resistere ai mutamenti di legge formale che introduce, mantenendo intatto il proprio codice di condotta rispetto alle istituzioni sostanziali del Paese, che non sono necessariamente contenibili nella dinamica tra parlamento e governo. Che l'intesa tra Renzi e Berlusconi porti in dote lo spagnolo corretto, il doppio turno genuino o un Alfano in meno, costituirà una premessa forse necessaria ma di per sè non sufficiente per governare l'Italia nel modo in cui andrebbe fatto.
Nel corso degli ultimi 15 anni abbiamo avuto esperienza di maggioranze omogenee (leggasi alla voce Berlusconi 2001 e 2008) e governi istituzionalmente ben torniti che ciononostante hanno miseramente fallito la sfida delle riforme e dell'ammodernamento economico, giuridico e istituzionale del Paese. Allo stesso modo, fatta eccezione dei primi 4 mesi del governo Monti, neppure la forza coesiva dell'emergenza e la massima copertura dello spettro politico assicurata da maggioranze larghe e disomogenee, hanno sortito un cambio di passo nella conduzione degli affari pubblici in Italia. E' per queste ragioni che suonano parziali, quando non proprio fallaci, tanto le affermazioni di chi scarica il peso di vent'anni di fallimenti di governo sull'ostruzionismo di fantomatici partitini, quanto quelle di coloro i quali gridano allo scippo di sovranità popolare perpetrato per mezzo delle liste bloccate, ai danni di quel "paradiso di democrazia" che sarebbero i voti di preferenza.
Che la legge elettorale non determini la futura condotta del sistema politico e istituzionale del Paese è controprovato, ad esempio, dal fatto che se Berlusconi domani vincesse le elezioni sulla base di una legge elettorale che gli attribuisse una maggioranza schiacciante in Parlamento, sarebbe comunque incapace di governare, come ha già dimostrato in passato. Una simile prognosi non è ancora possibile su Matteo Renzi, nè in senso negativo nè positivo. Probabilmente, liberatosi dei "nani" e con una maggioranza coesa, Renzi farebbe meglio di Berlusconi (invero è difficile fare peggio). Ma se anche ciò fosse, io lo giudicherei non già come un dono grazioso di questa o quella legge elettorale, quanto del meccanismo di autoriforma generatosi dentro il PD quando ha deciso di scegliere la propria classe dirigente attraverso rituali pubblici, competitivi e maggioritari, trovandone una migliore capace di confrontarsi con la sfida di governo.
Un eventuale buon governo renziano costituirebbe il risultato di secondo livello della vera innovazione di sistema e di sostanza, cioè le primarie, che sono un prodotto di cultura politica prima che un coefficiente matematico applicato a una elezione. Che poi questa innovazione di sostanza sia maggioritaria non è un caso e dovrebbe suggerire qualcosa anche rispetto alla legge elettorale di cui oggi dovremmo apprendere i dettagli, in quanto solo il maggioritario consente di spezzare i legami statici tra candidati e constitutencies classiche, e dunque facilita il cambiamento.
Insomma, fare la legge elettorale è un atto necessario e sarebbe bene che le parti in discussione ne facessero una maggioritaria. Ma se i partiti non ricostruiranno se stessi, il proprio statuto e il proprio modo di intendere la relazione con il Paese e le sue Istituzioni sostanziali, nemmeno un sistema di collegi uninominali all'inglese ci salverà dall'esito di pessimi governi.