Chiara Valerio grande

In A Conflict of Visions, un importante saggio sulla conflittualità politica, l’economista Thomas Sowell identificava due diverse concezioni da cui deriverebbero molte specificità del conservatorismo e del progressismo, in particolare americano. Si tratterebbe della visione “unconstrained” e “constrained”: la prima, progressista, si baserebbe sull’assunto che la natura (umana) sia essenzialmente pura, analogamente all’idea del “buon selvaggio”, e che su di essa si possano edificare costruzioni sociali virtuose. La sua estremizzazione potrebbe essere riassunta dalla asserzione del socialista utopico Robert Owen: “Si può dare a qualsiasi società qualsiasi impronta, mediante l’apposizione di alcuni mezzi detenuti da chi governa”. La seconda visione, conservatrice, sarebbe invece fondata su una concezione molto più scettica in merito alle virtù della natura umana e alle sue capacità di riformarsi.

Entrambe queste concezioni possono essere supportate empiricamente e modellate in modo tale da essere rese più caricaturali o più credibili. In ogni caso, la dualità proposta coglie un aspetto essenziale della concezione progressista: senza costruttivismo sociale, senza fiducia nella natura dell’uomo, non vi può essere progresso. Sotto queste lenti, possono essere meglio osservate alcune tendenze nel progressismo contemporaneo volte a “socializzare” la conflittualità tra generi e dunque anche a “de-naturalizzarla”, di conseguenza de-sessualizzandola. Ciò risulta particolarmente evidente nelle istanze del transfemminismo intersezionale, che nell’attenzione rivolta alle identità di genere inevitabilmente osserva l’identità sessuale quale costrutto sociale (fino alle posizioni più radicali che arrivano a definire il sesso in sé quale costrutto sociale), ma si riflette anche in tendenze culturali più spicciole e in radici più risalenti del femminismo. L’esempio più semplice potrebbe rivenirsi nella recente scelta da parte di alcune forze progressiste di promuovere una campagna sul diritto all’aborto non riferendosi a “donne” bensì generalmente a “persone gestanti”, per comprendere le diverse identità di genere.

Non è un caso che Il Post, giornale online particolarmente attento alla correttezza linguistica, abbia titolato sugli orribili fatti di cronaca di Palermo: “Sette persone sono state arrestate con l’accusa di aver violentato una ragazza”. La scelta, oggettivamente infelice, di riferirsi agli uomini accusati quali “persone” e alla vittima quale “ragazza” non è tanto problematica nella sua incoerenza: lo sarebbe ancora di più nella sua coerenza: “Sette persone sono accusate di aver violentato una persona”. Sul fronte della “socializzazione” della violenza, invece, negli stessi giorni, Chiara Valerio sulla Repubblica, a proposito di femminicidio, argomentava: “Queste donne sono state tutte ammazzate da uomini che non nomineremo. Perché il carnefice, è chiaro ormai, è uno solo, la società civile”.

L’opacizzazione del sesso quale dato biologico, l’enfatizzazione (rectius assolutizzazione) del piano sociale sono chiaramente funzionali alla concezione progressista per come sopra delineata. Ciò che è culturale e sociale può essere corretto politicamente; su ciò che è innato e individuale i margini di intervento sono molto minori, e talvolta preclusi. Tali conseguenze vengono esplicitamente sviluppate da Chiara Valerio: “Perché il responsabile innominato di questi omicidi è la società civile? Perché è la società civile che è composta di cittadini e cittadine che esercitano o non esercitano il diritto di voto. E che esercitando o non esercitando il diritto di voto - che è pure un dovere, come ogni diritto - eleggono governi che prendono o non prendono decisioni. E che una volta eletti, nominano o non nominano ministri che decidono o non decidono di assumersi la colpevolezza di queste morti. Corpi alla Patria, ancora”. La conclusione è lapidaria: “La violenza è una questione culturale, perciò l’assassino è la società civile”.

Noi riteniamo invece imprescindibile che il progressismo riconosca la matrice e il carattere eminentemente “naturale” della violenza e in particolare si riappropri di una concezione sessualizzata della violenza di genere. “Sociale” può essere, al contrario, la progressiva emancipazione dalla violenza in senso generale come umanità, ma la specificità della violenza di genere, che è violenza tra sessi, violenza di un sesso sull’altro, non può essere affrontata prescindendo dalle sue basi naturali. Non siamo spettri incarnati in corpi che fungono da mera veste, bensì corpi (sessualizzati) dotati di coscienza. Non tutti i maschi sono stupratori, evidentemente, ma non è un caso se sostanzialmente tutti gli stupratori sono maschi. Non è un caso se lo sono la grande maggioranza dei serial killer e dei pedofili, se i maschi sono generalmente più violenti, se hanno più frequentemente tendenze oggettificanti. Non è un caso, e non è mero costrutto sociale. Riconoscere la componente biologica della maggiore violenza maschile può urtare contemporaneamente due diverse sensibilità: quella di chi rinviene (o meglio inventa) in tale considerazione una giustificazione della violenza maschile o comunque l’idea di una sua inevitabilità; quella di chi invece vi intravede una colpevolizzazione indiscriminata.

Entrambe le posizioni sono fallaci. C’è una sostanziale differenza tra ciò che causa e ciò che giustifica. Indagare e individuare cause non significa cercare e trovare giustificazioni, così come non significa ritenere che un fenomeno sia deterministicamente ineluttabile. Dall’altra parte, non si tratta di agitare colpe “di classe”, ma di riconoscere la differenza tra il piano positivo e quello normativo. Sul piano normativo esiste la responsabilità individuale, una eguaglianza imprescindibile davanti alla legge, lo stato di diritto. Sul piano positivo si tratta di riconoscere che la responsabilità individuale non cancella il dato sociale per cui gli stupri maschili sono imparagonabilmente più frequenti di quelli femminili. Di nuovo, ci sono cause anche biologiche oltre che culturali, e cause biologiche che originano quelle culturali. I principi liberali e l’analisi antropologica operano su piani diversi, non si annullano.

L’orrore dei fatti di Palermo, di cui in questo articolo non ci occuperemo, ha provocato larghe manifestazioni di indignazione. Alle istanze femministe per la sensibilizzazione sulla violenza di genere si sono inevitabilmente aggiunti la morbosità dei clickbait, l’esuberanza del cosiddetto attivismo performativo, il tradizionale forcaiolismo, la rabbia e la paura. Tra il ministro Salvini che è tornato a proporre la castrazione chimica per gli stupratori (vecchio cavallo di battaglia leghista), la ministra Eugenia Roccella che ha parlato di necessari controlli sulla fruizione della pornografia, non sono mancati naturalmente i commenti di influencer e attivisti.

Il content creator Francesco Cicconetti ha iniziato un thread asserendo che si sarebbe “come loro” (riferendosi agli stupratori) se si “sessualizza” una ragazza attraente incontrata in discoteca, oppure se ci si “sente potenti” dopo aver avuto un rapporto sessuale con una donna. È evidente la slippery slope fallacy insita in simili posizioni, che arrivano a sindacare perfino la sfera sentimentale e l’essenza più intima della sessualità. Peraltro, è ben possibile che tali estremismi non siano necessariamente un male nel lungo periodo. La radicalità e opinioni lunari hanno sempre accompagnato l’attivismo per i diritti civili, liberazione sessuale compresa, e hanno spesso avuto l’effetto di suscitare dibattito, traducendosi in antitesi che, scontratesi con inerzie culturali opposte, si risolvevano in ragionevole sintesi e progresso. Tuttavia, questa concezione tradisce l’idea che la stessa sessualità maschile sia figlia del patriarcato, invertendo la causa con l’effetto. Che sessualità sia necessariamente contesto sociale, che sia ciò su cui l’attivismo o direttamente la politica di cui parlava Valerio potrebbero intervenire. Che avere una sessualità maschile sia una scelta patriarcale che qualifica il maschio sessuato non solo come abusatore latente, ma come collaborazionista degli abusi, obliterando qualunque separazione tra foro interno ed esterno.

L’illusione della de-sessualizzazione progressista conduce a un vicolo cieco. Al più, ha esternalità positive nel suscitare dibattito per reazione. Gli autori di un saggio che fu molto discusso, e anche molto travisato, “A natural history of rape”, valutarono come titolo della propria ricerca anche “Why men rape, why women suffer”. Se la storia umana cominciasse da capo molte volte, ogni volta avremmo una enorme varietà di linguaggi diversi, perché le specifiche forme del linguaggio sono una questione puramente culturale. È davvero difficile ipotizzare che invece non avremmo altrettante volte società patriarcali e violente. Altrettante umanità in cui sono gli uomini a violentare, e le donne a soffrire. Non c’è il buon selvaggio sessualmente traviato dalla società patriarcale, c’è il selvaggio sessualizzato che crea la società patriarcale. Se, come disse Harold Laski, civiltà significa innanzitutto indisponibilità a infliggere un male non necessario, la civiltà non può che essere femminista. E civiltà significa modellare secondo ragione la natura, riconoscendo il male insito in essa.