megalizzi

Ha ragione Giordano Masini quando ricorda, su Facebook, che Antonio Megalizzi è morto per una casualità, non per quel che rappresenta per noi, peraltro oggi esponenzialmente più forte di ciò che già raccontava in vita. Ma non sono sicuro che il cordoglio nasca principalmente dal “rifiuto di riconoscere questo dato di casualità”, oltre che naturalmente dalle dinamiche social di viralizzazione del sentimento citate dallo stesso direttore.

La morte di Megalizzi acquista un particolare, commovente, significato proprio riconoscendo in pieno la componente casuale della strage terroristica. Rappresenta perfettamente il destino dell’uomo chiamato a una guerra eroica ed eterna (per questo invincibile) contro il secondo principio della termodinamica. Lo scopo ultimo della vita, della mente e dell’impresa umana: impegnare energia e conoscenza per contrastare la marea dell’entropia e ritagliarsi dei rifugi di ordine benefico. Costruire pazientemente strutture precarie, di straordinario valore perché uniche, rispetto alla massima maggioranza di possibili combinazioni disordinate, nemiche della vita.

Il terrorista non mirava alle sue idee, alla sua storia, ai suoi valori, ma mirava alla distruzione casuale. Antonio al contrario lavorava alla costruzione ragionata e al paziente miglioramento di quelle strutture. È evidente la forza valoriale di questa diversità, che eleva la morte di Megalizzi a simbolo in grado di trascendere l’empatia per il connazionale o la ribellione contro la fatalità che rapisce il giovane. Potremmo dire, partendo da una considerazione dell’autorevole islamologo Olivier Roy, secondo il quale saremmo davanti a una islamizzazione dell’antagonismo sociale e della rivolta nichilista, che Antonio rappresentava un fenomeno speculare: l’europeizzazione dell’attivismo costruttivo.

"Europeizzazione" da non confondere con la retorica spesso stucchevole della “generazione erasmus”, ma da intendere nel senso più profondo e politico. L’amore di Antonio per il suo lavoro e per l’Europa erano inscindibili, e la seconda diventava la dimensione naturale della volontà di costruire qualcosa di più grande, nella propria vita come in quella della propria comunità. Senza affatto farne un martire dell’Europa, idea febbrile degna dell’integralismo che l’ha ucciso, o, come pure ha detto Emma Bonino, un eroe.

La trasmutazione della vittima in eroe, come se il primo status di per sé non fosse abbastanza, rappresenta un’altra delle trappole ideologiche in cui possiamo cadere in buona fede, comune peraltro ad altri casi italiani. La vittima può e deve essere celebrata in quanto tale, senza armarla o comunque arruolarla retoricamente in una crociata sotto qualche bandiera. A conferma di quanto scritto nelle prime righe, del bisogno addirittura antropologico dell’uomo di sentirsi spettatore di una storia, se non addirittura parte.

Ci sono alla fine due sole concezioni che possiamo avere della vita: pensare che tutto accada per un perché o che tutto accada per caso. Quale che sia la nostra scelta (o l’agnostica astensione), spetta all’uomo dare un proprio senso a ciò che accade. Non limitarsi a chiedere a cosa servano i colori ma comporre il proprio quadro. È ciò che Antonio stava facendo della sua vita ed è ciò che il nichilismo di un proiettile nel mucchio ha distrutto. La banalità del male, ma anche la specialità del bene.