La prevenzione aiuta la repressione. La lotta intelligente al caporalato
Diritto e libertà
I due incidenti stradali che, a pochi giorni di distanza, hanno provocato la morte di 16 stranieri impiegati nella raccolta dei pomodori della Capitanata riaccendono l’attenzione della stampa su un fenomeno che, ormai da svariati anni, balza all’onore delle cronache soltanto in corrispondenza di simili tragedie. Dall’omicidio di Soumayla Sacko, che si batteva in Calabria a tutela di quei braccianti immigrati, ai due morti nei roghi dei ghetti di Rignano lo scorso anno; dalle “schiave rumene” delle serre della Sicilia, che si scoprirono sfruttate anche sessualmente dai datori di lavoro, alle due braccianti italiane morte in Puglia.
Ma sfruttamento lavorativo, lavoro sommerso in agricoltura, agromafie e caporalato – ossia l’intermediazione illecita svolta per reperire la manodopera a basso costo per le aziende agricole – non sono fenomeni solo meridionali. Anche il Piemonte, nelle aree tra Saluzzo, Bra e le Langhe, e il Lazio rientrano tra le aree segnalate da organizzazioni sindacali e non, come Medici per i Diritti Umani, Terra! e Parsec, che da anni documentano il fenomeno.
Un’economia sommersa che, secondo Flai-CGIL, produrrebbe un valore d’affari tra i 4 e 5 miliardi di euro, basata su un esercito di circa 400 mila persone, prevalentemente immigrati regolari e non, che lavorano per 20-30 euro al giorno. I caporali, oltre a prendere una percentuale dalle imprese sulla raccolta, organizzano e si fanno pagare dai braccianti vitto e trasporto sui luoghi di lavoro. In alcuni casi, come in Calabria, le mafie locali sono notoriamente coinvolte nel business. Almeno un quarto di queste persone lavorerebbe in condizioni di grave sfruttamento.
E allora perché, se il fenomeno è ormai tanto noto, si fa tanta fatica a debellarlo? Negli ultimi anni la risposta politica c’è stata, ma l’approccio “punitivo” ha senz’altro prevalso su quello preventivo. Il problema non è certo esclusivamente italiano, basta citare la provincia di Huelva in Spagna dove migliaia di lavoratori dell’Est sono impiegati nella raccolta della frutta. Per questo, anche livello di Unione Europea, esiste dal 2009 una normativa che incentiva i lavoratori stranieri irregolari a denunciare i rapporti di lavoro sommerso garantendo che le aziende o gli intermediari condannati per sfruttamento del lavoro irregolare debbano anche corrispondere alle vittime i salari dovuti al livello del contratto di settore per il periodo lavorato. La direttiva prevede anche un permesso di soggiorno temporaneo per chi fa denuncia.
In Italia, a queste norme si sono affiancate quelle della Legge sul contrasto al caporalato dell’autunno 2016, che ha riformulato le definizioni d’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro prevedendo anche una responsabilità amministrativa dell’azienda che ne beneficia e la possibilità di confisca e sequestro di beni e attività. Un approccio che dovrebbe spingere le aziende stesse a verificare chi recluta e trasporta i braccianti.
Tuttavia, mentre sul lato penale perquisizioni e inchieste recenti hanno realizzato alcuni passi avanti, è proprio la parte preventiva della “Legge Martina-Orlando” che resta inattuata. Da una parte c’è la scarsa conoscenza trai lavoratori irregolari delle possibilità offerte dalla normativa penale, cosa che trattiene chi non sia in possesso di regolare permesso di soggiorno dal denunciare le condizioni di sfruttamento a sindacalisti o alle forze dell’ordine. Dall’altra, troppa lentezza nella creazione, a livello locale, delle “Reti del lavoro agricolo di qualità,” ossia i network di aziende per le quali l’INPS certifica il rispetto delle norme in materia di lavoro. Proprio a Foggia, cuore del fenomeno caporalato, la rete locale si è insediata solo nel marzo 2018.
Lo stesso si può dire per quanto riguarda il Piano d’Azione nazionale e quelli di livello locale per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori, in cui l’esigenza di coordinamento interministeriale, come spesso accade nel nostro paese, blocca piuttosto che facilitare l’identificazione di soluzioni in tempi rapidi. E invece, proprio la carenza logistica – sistemazione abitativa e trasporti – è stata alla base di alcuni degli episodi più gravi e mortiferi, oltre a continuare a fornire lavoro ai caporali.
Invece che concentrarsi sull’attuazione delle misure di prevenzione, il Ministro Centinaio ha ventilato la possibile riapertura della normativa, ipotesi respinta con preoccupazione – ben fondata visto il generale atteggiamento del Governo su tutto ciò che guarda i migranti – dalle associazioni, che chiedono a gran voce, invece, un approccio “di filiera”.
Che significa? Significa che la responsabilità e la tracciabilità delle aziende che fanno ricorso al lavoro sfruttato deve essere garantita aldilà degli intermediari e delle aziende agricole che ne sono le dirette beneficiarie. Abbondano, infatti, le storie di braccianti schiavizzati da aziende che sono poi risultate fornitrici di multinazionali come Cirio, o di Mutti. La cui passata in scatola, è bene ricordarlo, costa tra i 30 e i 50 centesimi al pezzo.
È chiaro che, data l’entità del fenomeno, la prevenzione passa anche da un’azione di sensibilizzazione delle grandi aziende e del pubblico. Le ipotesi per garantire la filiera vanno dall’adottare registri pubblici dei fornitori di materie prime, alla promozione di sistemi di certificazione dell’assenza di lavoro sfruttato che riguardino tutta la catena produttiva, dal campo allo scaffale. Magari un bollino unico promosso a livello nazionale anche con il sostegno di istituzioni e organizzazioni confederali, visto che le tante, meritorie, piccole iniziative esistenti sono assai poco conosciute.
L’altra misura necessaria è la regolarizzazione dei lavoratori stranieri impiegati nel settore – l’80% dei braccianti del sommerso agricolo. Un obiettivo che potrebbe essere perseguito se la Camera provvedesse a una rapida calendarizzazione della Legge d’iniziativa popolare “Ero Straniero” depositata lo scorso Novembre con oltre 90 mila firme, che mira proprio a un superamento delle norme della Bossi-Fini che vietano l’emersione di quanti siano già impiegati e che renderebbe possibile l’acquisizione di permessi di soggiorno per lavoro e per ricerca di lavoro, anche in agricoltura.
Facendo sì che aziende e lavoratori del settore possano affidarsi a intermediari leciti o addirittura pubblici, come i centri per l’impiego. Non ai caporali.