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Se il ministro degli Interni dice: “Faremo un censimento dei rom; quelli italiani purtroppo ce li dobbiamo tenere” certifica a livello istituzionale una cosa che si chiama “razzismo”. Quindi compie un atto gravissimo: un censimento su base etnica, come se i rom fossero una casta, italiani “a parte”, geneticamente diversi. Tecnicamente, è esattamente come se avesse detto la stessa frase riferendola agli ebrei, il che avrebbe quasi certamente destato meno consenso popolare.

È impossibile negare che esiste uno specifico problema di razzismo contro i rom, come analizzava bene un articolo di Filippo Facci di otto anni fa. E a proposito di parallelismi con gli ebrei è sempre utile ricordare che quello contro i rom fu l’unico, con quello ebraico, Olocausto che i nazisti delegarono a ragioni puramente razziali.

Anche alla triste luce di queste considerazioni dobbiamo chiederci: quanto consenso riceverebbe questa frase se venisse sottoposta a sondaggio nel Paese? Sicuramente una percentuale molto alta. Con tanti saluti a chi utilizza come argomento il fatto che qualcosa o qualcuno non possa essere razzista “perché sostenuto da troppi italiani”.

Ma il punto più significativo è a nostro avviso un altro: è evidente che per “rom” gli italiani intenderebbero “quel gruppo di persone che vivono di espedienti e criminalità, vivono nei campi rom, mettono i bambini a chiedere l’elemosina, non si vogliono integrare” e così via. Fenomeni sociali sgradevolissimi e innegabili. Quindi ciò che viene recepito è “buttare fuori, o purtroppo tenerci questi elementi nocivi per la nostra comunità”. E, detta in modo ancora più brutale, e quindi più vicino alla realtà di oggi, la scelta è essere pro o contro questi ladruncoli.

La frase di Salvini e le reazioni che riceve sono un perfetto esempio della differenza tra la forma che deve essere curata da un politico (almeno chi copre incarichi istituzionali) e la “sostanza” che viene percepita dalla maggioranza degli italiani. Le persone raramente colgono le differenze di “forma”, di metodo, derubricandole a questioni di etichetta e quindi un po’ stucchevoli. Ma sono quella forma e quel metodo che devono essere costantemente seguite dalle istituzioni per non scadere nel razzismo (in questo caso), o perché si faccia un regolare processo anche all’imputato che tutti ritengono colpevole, o perché anche il più detestato delinquente venga protetto dal linciaggio e così via. Insomma l’impalcatura fondamentale dello stato di diritto.

Quella forma e quel metodo delle istituzioni sono la misura del grado di civiltà di una società. Anche se il “popolo”, non lo capisce o quantomeno ciò non viene rilevato dai sondaggi. È per questo che chiunque abbia un grado di coscienza tale da accorgersi di quanto sia preziosa quella “forma” deve segnalare tutte le volte che le istituzioni la tradiscono, anche solo con le parole. Anche a prescindere di quanto possa essere condivisibile la “sostanza”.

Ed è evidente che lo scontro politico si reggerà sempre sulla “sostanza”. Il gioco più pericoloso cui vuole spingerci Salvini è proprio trascinare lo stato di diritto a un bivio tra “progressisti” che lo difendano e “populisti” che lo ritengano non imprescindibile. Un terribile bipolarismo in cui la democrazia liberale diverrà presto roba da radical-chic. A nuove leadership spetterebbe la responsabilità di entrare nell’agenda del dibattito (se non dettarla) e suscitare diversi desideri e diverse speranze nell’elettorato.

Alla borghesia, intesa in modo vintage come classe civilizzatrice, spetta spiegare in ogni occasione, ragionevolmente, come la “forma” sia la sostanza della democrazia liberale.