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Nel magmatico contesto contemporaneo in cui la vita corre più veloce del diritto, l’evoluzione normativa ha faticato ad approdare e a fare concreta applicazione del concetto di “diritto alla riservatezza del minore”, specie alla luce degli stringenti poteri-doveri gravanti sui genitori così come compressi nel vecchio concetto di "potestà genitoriale", ora rivisitato, modernizzato e messo a nuovo col termine più gradito a tutti di “responsabilità genitoriale” con tutto il suo portato di responsabilità oggettive e semi-oggettive, comprese la culpa in eligendo e quella in vigilando ad essa sottese e sui genitori gravanti per i fatti compiuti dai figli.

Il tutto in un ambito sempre più scivoloso e fluido in cui si è passati dal concetto di “privacy” intesa come diritto di essere lasciati soli alla “privacy” intesa come diritto a mantenere il controllo sulle proprie informazioni personali, e questo mentre le tecnologie bruciavano sul tempo tutte le belle elucubrazioni dei pensatori del diritto su concetti, principi, istituti e collocazione normativa.

Se ora appunto è di questo che si tratta, e cioè della manifestazione del consenso al trattamento dei propri dati, nel caso del minore il dilemma si sostanzia nell’individuazione di chi dovrà esprimere validamente questo consenso, specie se sorge conflitto con i genitori e se il minore ha già maturato capacità di discernimento per esprimere il consenso richiesto. Il diritto internazionale sul tema sembra essere chiaro: l’art. 16 della Convenzione di New York prevede che nessun fanciullo potrà essere oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio e corrispondenza, e per tali profili egli ha diritto alla protezione della legge. Idem l’art. 8 delle Regole di Pechino prevede che “il diritto del giovane alla vita privata deve essere rispettato a tutti i livelli”.

Eppure la tutela che ha ricevuto la riservatezza del minore nel nostro ordinamento si è sempre attestata in ambiti dedicati alla protezione del minore in contesti considerati estremi o “delicati” per lo più in ambito penalistico come tutela del minore vittima di reati. Ma il vero nodo ermeneutico generale si fonda sulla concreta ed efficace manifestazione del consenso al trattamento dei dati personali, quando appunto il titolare degli stessi sia un minore. A voler interpretare letteralmente il Codice della privacy (l.196/2003, sinora vigente, ma ancora per poco), si sarebbe dovuto dedurre che la prestazione del consenso era demandata al rappresentante legale, essendo il minore incapace di agire sino al raggiungimento della maggiore età, il tutto in stridente contrasto con la natura personalissima del diritto alla riservatezza.

Infatti l’opinione largamente diffusa in dottrina collocava il minore in una condizione di partecipazione attiva agli eventi della vita che lo riguardassero, senza la necessaria intermediazione dei genitori, e questo in linea con la concezione del minore adottata in ambito internazionale (il riferimento è alla Convenzione di New York sui diritti dei fanciulli e a quella di Strasbrurgo sull’esercizio dei diritti dei fanciulli entrambe ratificate dall’Italia). E dunque si è quasi unanimamente passati a considerare i minori non più come soggetti incapaci di agire tout court, specie in riferimento all’esercizio dei diritti della personalità tra i quali appunto rientra il diritto alla privacy.

Ecco che si è fatto strada il concetto di “capacità di discernimento” del minore, e questo anche in base al dettato del Codice privacy 2003 riconoscendo al soggetto minore quindi la capacità di prestazione del consenso, al di fuori di casi eccezionali riferiti alle ipotesi di salvaguardia della vita e della incolumità fisica dell’interessato. È stato così tranciato prima su base interpretativa e successivamente anche normativamente il collegamento concettuale tra capacità di agire e prestazione del consenso. Ma ovviamente con una valutazione in concreto, e dunque caso per caso.

Discorso a parte invece quello della prestazione del consenso digitale, che già di per sé stesso considerato crea al giurista non pochi dilemmi, aggravati nel caso titolare dei dati sia un minore. Nell’attesa che il nuovo Regolamento Ue 679/2016, in Italia in vigore a partire da maggio 2018, desti dibattiti dottrinari e giurisprudenziali, vanno segnalate le novità introdotte, tra le altre, in materia di offerta diretta di servizi in ambito web et similia ai minori, per cui in questi casi si prevede che il consenso sia lecitamente prestato dal minore stesso ove egli abbia almeno 16 anni. Al di sotto di tale limite anagrafico il consenso dovrà essere prestato da colui che esercita sull’infrasedicenne la responsabilità genitoriale.

Ed è data espressa facoltà agli Stati Membri di derogare a suddetto limite nel senso di abbassarlo non oltre il tredicesimo anno di età. In sostanza la normativa europea, in linea con la tendenza internazionale, e generalizzando il concetto di “capacità di discernimento” introduce una sorta di speciale “maggiore età digitale” ai fini della prestazione del consenso da parte di un minore al trattamento dei suoi dati on line ed assimilati. Non resterà a questo punto che amalgamare le novità in continuo divenire con gli schemi e i principi dell’ordinamento interno. Magari a suon di sentenze.