25 novembre

C'è un aspetto dello scorso 25 novembre che non è stato adeguatamente osservato: la più grande piazza politica degli ultimi anni non aveva sostanzialmente nulla da chiedere alla politica. A livello di "policy", di iniziativa politica, ciò che sembrava emergere maggiormente era la richiesta di un programma di educazione sentimentale/affettiva/ sessuale da inserire nelle scuole. Comunque la si pensi sul tema, una richiesta debole rispetto alle grandi rivendicazioni per i diritti civili del passato o anche di movimenti radicali come Black Lives Matter.

Analogo esempio (ma con un caveat fondamentale) si potrebbe rinvenire nell'altra grande manifestazione di piazza di oggi: il Pride. Certamente le persone LGBT in Italia hanno moltissimo da chiedere alla politica, a partire dal matrimonio egualitario: ma la vera forza propulsiva del Pride sta altrove. E questo è evidente dalla partecipazione che il Pride continua a richiamare anche in quei Paesi più avanzati dal punto di vista dei diritti civili e dove il matrimonio omosessuale è realtà da decenni.

Francis Fukuyama aveva individuato nel thymos, ovvero nel bisogno di riconoscimento della propria dignità o comunque del valore che si attribuisce a se stessi, la vera spinta alla base della democrazia liberale. Le piazze del 25 novembre, ma anche le altre piazze più note delle democrazie avanzate, esprimono fin già dai nomi (Pride, Non una di meno, Black Lives Matter…) un’evoluzione del thymos. Certamente manifestazioni fondate sulla identità, che chiedono per l’appunto "riconoscimento" (sociale); non più rappresentanza (politica) come in passato. Un insieme di rivendicazioni che sulla scorta di Fukuyama potremmo definire post-storiche, ma anche più semplicemente "pre-politiche".

È pur vero che Non una di meno ha forgiato una spessa cornice ideologica intersezionale, anti-occidentale, con Scruton potremmo dire “oikofobica”, visibile dalle irricevibili omissioni, oltre che dai proclami, della propria "piattaforma", così come è riuscita con grande efficacia a imporre sul dibattito pubblico frame dai quali non è più possibile prescindere anche quando ce ne si distanzi: la narrazione emergenziale, lo slogan del femminicida non malato ma figlio sano del patriarcato.

Ma in quella piazza, di dimensioni spropositate rispetto a qualsiasi manifestazione della sinistra radicale, si sono riversate soprattutto emozionalità che ben potevano prescindere dalla cornice anti-occidentale "nonunadimenista". Emozioni e vissuti molto più immediati: lo sconcerto per il brutale fatto di cronaca, la paura di camminare da sole per strada, il vissuto di relazioni “tossiche” (una delle parole del nostro tempo), la violenza subita o temuta, il disagio di luoghi di lavoro ansiogeni. Così come in fondo sono queste emozioni e questi vissuti che determinano la partecipazione del Pride: il superamento della propria omofobia interiorizzata, la complessità di molti coming out in famiglia e fuori, lo stigma e la violenza temuti o vissuti, l’affetto per gli amici omosessuali e la consapevolezza della specificità di ogni sessualità.

Tutto questo è naturalmente anche riflesso dei nuovi media, che dopo essere divenuti messaggio si sono trasformati in attivismo: più performativo, più emozionale e istantaneo, più narcisistico. Ed è comunque parte di un mutamento di concezione della politica, cui non è più attribuita alcuna prospettiva salvifica. In parte certamente per via della stracitata sfiducia nei confronti della politica, ma in gran parte anche perché i rimedi strettamente politici sono stati in gran parte esperiti nella lunga stagione riformista del dopoguerra, migliorando notevolmente la condizione delle “minoranze”, ma naturalmente non realizzando il paradiso e di converso aumentando la portata del thymos di cui sopra. Un “political malaise” già osservato trent’anni fa da Fukuyama nelle conclusioni tutt’altro che entusiasticamente ottimistiche (come può pensare solo chi cita il libro senza averlo letto, ovvero quasi tutti) della sua “Fine della Storia”.

Da un lato, dunque, si riscontra il senso di disillusione che vediamo spesso tramutarsi in frustrazione politica, protesta nichilista e timore per il futuro. Dall’altro, forse, occorre considerare che questa stessa disillusione, che riguarda tutto il Paese ma, in diverse misure, tutte le democrazie avanzate, è il portato della società liberale contemporanea, rispetto al tragico secolo "degli intellettuali e della politica" novecentesco, come lo definiva Tony Judt. Se oggi osserviamo con preoccupazione il trionfo narcisistico della emozionalità individuale che si sfoga per lo più sui social, Albert Camus, in uno dei suoi discorsi più celebri (La crisi dell’uomo) testimoniava la tragedia del mondo iper-politico: “La sostituzione dell’uomo reale con l’uomo politico. Non ci sono più passioni individuali possibili, ma soltanto passioni astratte.

Volenti o nolenti, siamo tutti imbarcati nella politica. Quel che conta non è rispettare o risparmiare le sofferenze di una madre, quel che conta è far trionfare una dottrina. E il dolore umano non è più uno scandalo, è solo un numero in una somma il cui terribile totale non è ancora calcolabile”. Per questo individuava come fondamentale imperativo per la ricostruzione del mondo dopo le macerie della Seconda guerra mondiale un ridimensionamento della politica.

Nell’osservare la grande disillusione di oggi, con i suoi portati anche più amari e “aimless”, e forse perfino nel riconoscervi le radici di un possibile declino, è sempre bene non rimuovere la tragedia delle precedenti illusioni.