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Dopo le nette dichiarazioni di chiusura del presidente francese Francois Hollande al TTIP “nella sua forma attuale”, è molto difficile che il trattato di libero scambio tra Stati Uniti ed Unione Europea vedrà la luce prima del termine del mandato di Barack Obama alla Casa Bianca. Quel che accadrà dal 2017 in poi, con un nuovo presidente degli Stati Uniti, è oggi imponderabile e soggetto a molte variabili, incluse le condizioni politiche, economiche ed istituzionali in cui si troverà l’Europa nel prossimo futuro.

La posizione francese non è una novità, l’approccio fortemente protezionistico è una costante della politica d’Oltralpe soprattutto nei settori dell’agricoltura e della filmografia, ma la pubblicazione da parte di alcuni documenti riservati da parte di Greenpeace ha dato ad Hollande l’occasione giusta per alzare e rendere definitivi i toni.

In realtà sarebbe serio riconoscere, da parte di tutti, che i documenti “scoperti” da Greenpeace altro non sono che la fotografia di un negoziato in cui le parti – gli Stati Uniti e l’Unione Europa – appaiono distanti, non tanto sull’abbattimento delle barriere tariffarie, quanto sulla possibile armonizzazione degli standard produttivi e regolatori. Il negoziato è lungo e difficile, nessuno immaginava il contrario, e l’accordo possibile sarebbe stato quello che le parti avrebbero voluto e potuto trovare, dopo peraltro tutti i passaggi democratici e parlamentari possibili da una parte e dall’altra dell’oceano. L’allarmismo con cui sono stati annunciati i “leaks”, quasi che si trattasse di norme che gli Stati Uniti stanno imponendo all’Europa dietro minaccia di una invasione armata, è purtroppo intriso di ideologia della cospirazione e di anti-americanismo a buon mercato. Il modo in cui Hollande legittima di fatto la lettura complottista gli si ritorcerà molto presto contro.

Chi scrive considera miope, anzi suicida, la contrarietà europea al TTIP: come argomentato su Il Foglio, se il Vecchio Continente ha una chance di conservare una centralità economica e politica in un mondo che cambia rapidamente, il cui baricentro diventa sempre più l’Oceano Pacifico e sempre meno l’Atlantico, questa risiede in una maggiore integrazione economica e commerciale con l’America. In caso contrario, beandoci dei nostri prodotti a km zero, rischiamo di diventare un continente periferico e sempre meno influente.

Le ragioni economiche sono tutte favorevoli all’accordo di libero scambio. Secondo un recente studio del World Trade Institute, sarebbe lecito attendersi dal Ttip un aumento strutturale del prodotto interno lordo europeo dello 0,5 per cento annuo, accompagnato da un pari aumento dei salari e da una crescita delle esportazioni dall’Europa verso gli Stati Uniti del 6 per cento circa. Per gli americani, l’accordo permetterebbe un aumento del Pil leggermente inferiore, circa lo 0,4 per cento all’anno, ed una crescita dell’export di beni e servizi verso l’Europa dell’8 per cento. Per l’Italia, la crescita del Pil sarebbe in linea con la media europea, trainata prevalentemente da un robusto aumento delle esportazioni verso i mercati americani (si stima il 21 per cento), che già negli ultimi anni hanno dimostrato un interesse crescente per il Made Italy.

A remare contro, sventolando la vuota retorica della difesa dell’ambiente, della qualità del cibo e della salute, c’è solo il marcio protezionismo e il mero calcolo elettorale di breve periodo di troppi leader politici europei. Gli stessi che, per ignavia e timore del populismo dilagante, stanno minando il trattato di Schengen e con esso l’essenza stessa delle quattro libertà fondamentali dell’Unione Europea.