I dottorandi in studi storici, geografici ed antropologici dell’Università di Padova hanno rilasciato un comunicato in cui definiscono l’uccisione di Giulia Cecchettin non come “l’azione di un mostro”, ma come “la manifestazione di un sistema patriarcale che solo nell’ultimo anno ha prodotto 104 casi di femminicidio”. Sempre di Padova è il grande scrittore Ferdinando Camon, che in una magnifica raccolta di riflessioni definisce la parola femminicidio “sbagliata”: perché con questa parola, ci avverte, “pare che si tratti di uomini che odiano le donne, di un odio di genere, maschi contro femmine. Non è cosí”.

Infatti non è così. Non è l’odio di genere ad avere ucciso Giulia. Né la cultura patriarcale a poter spiegare questo omicidio di una ventiduenne per mano di un suo coetaneo. Non vi è nulla nell’agire di questo ventiduenne che rifletta l'affermazione di una supremazia del potere maschile, che evochi una concezione del mondo come "naturalmente" ordinato intorno all’esercizio di quel potere, o che suggerisca che Giulia sia stata in quanto donna (tesi sostenuta, tra tanti altri, dalla Presidente del Parlamento Europeo), alla stregua di come diciamo che i terroristi di Hamas ammazzano gli ebrei in quanto ebrei.

Ha ragione Camon: “Questi violenti che picchiano, feriscono, minacciano, perserguitano o uccidono non odiano le donne in generale, ma in particolare le donne con cui vivono o hanno vissuto, che sono le loro mogli o compagne, da cui hanno avuto dei figli. Hanno una relazione con queste donne, una relazione che le rende importanti e uniche nella loro vita. E adesso odiano proprio questa importanza, questa unicità. Vorrebbero distruggerla. Per distruggerla, distruggono chi la incarna. Non perché è una donna, ma perché è quella donna, la donna che segna la loro vita”.

Esattamente come gli uomini che uccidono sono quegli uomini, non altri. Dietro agli omicidi di Giulia, e di tutte le Giulia prima di lei, non vi sono fenomeni culturali che possano diluire le responsabilità individuali in responsabilità collettive. Né vi è necessariamente una struttura patriarcale alla base della sovrastruttura ideologica che avrebbe armato le mani di Filippo e di tutti i Filippo prima di lui. Infine, non esiste un femminicidio "italiano" distinto dal medesimo fenomeno omicidiario altrove, né tantomeno un primato di violenza ed abuso all’interno delle sole coppie eterosessuali.

Smettiamola, quindi, con la pretesa di circoscrivere la violenza unicamente all’interno del perimetro di una “cultura”. E smettiamola con l’esacerbazione del conflitto tra generi attraverso la colpevolizzazione dell'uno o dell’altro a seconda delle circostanze: non è colpa degli uomini se alcuni uomini uccidono delle donne. L’idea che i primi debbano scusarsi “in quanto uomini” per tutte le Giulia che vengono uccise è un’idea tanto stupida quanto l’idea che queste scuse possano in qualche modo incidere sulle gesta del prossimo Filippo.

La violenza esiste. Attraversa trasversalmente le culture, ed esiste a prescindere da esse: diverse culture prevengono, controllano, coltivano o puniscono la violenza in modi diversi. Ma non esiste una società umana circoscritta geograficamente, giuridicamente o culturalmente che possa eliminare la violenza: violenza che da sempre si annida all’interno delle relazioni più intime. La prima causa di omicidio delle donne sono queste relazioni perché le donne sono meno esposte alle altre forme di violenza per cui vengono uccisi gli uomini: in tutto il mondo, da sempre, in numero più elevato delle donne.

Come in tutto il mondo, da sempre, gli uomini uccidono più delle donne: è probabile che la parità tra i sessi tanto agognata dai sostenitori della tesi culturale del femminicidio non si tradurrà mai in una equa rappresentazione di uomini e donne nelle statistiche sugli omicidi perpetrati nel mondo. Ridurre tali statistiche ad un mero riflesso culturale significa ignorare i fattori biologici e psicologici che concorrono a spiegare quella che l’Associazione Americana di Psicologia definisce “la più importante e perdurante differenza comportamentale tra i sessi”. Gli esseri umani uccidono: quelli di sesso maschile di più.

Se i fattori biologici sono distintivi, nel caso di omicidi come quello di Giulia quelli psicologici fanno quasi invariabilmente capo ad un ego fragile, acerbo, incompiuto. Incapace di accettare la fine di una relazione in virtù dell’incapacità di concepire il proprio sé come separato da quello dell’altra persona. La contraddizione è solo apparente: è l’incapacità di vedere nell’altra persona un essere umano in sé che impedisce di intravedervi un fine anziché un mezzo, e pertanto una vita inviolabile anziché un’appendice della propria. Chi uccide per le ragioni per cui ha ucciso Filippo non compie, simbolicamente, un gesto di separazione, ma un atto di definitiva appropriazione: tema filosofico, e morale, e psichico, antico, che si spera gli studenti di Padova abbiano incontrato lungo il loro percorso formativo.

I 104 Filippo che hanno ucciso le 104 Giulia ammazzate nel 2023 non hanno ucciso gli esseri umani Giulia, le donne Giulia, le persone Giulia: non hanno agito per togliere una vita. Hanno agito per appropriarsi di una vita senza la quale il proprio ego, e la sua immagine riflessa verso l’esterno dallo specchio ingannevole del proprio narcisismo, non sarebbe sopravvissuto. È così che pochi mesi fa è stata ammazzata a coltellate un’altra Giulia: per salvare quell’immagine. Per tenere in piedi un castello di menzogne. Ti uccido non per uccidere te, ma per mantenere in vita un’immagine di me.

Filippo ed Alessandro non hanno quindi ucciso una donna, non hanno ucciso una persona, non hanno ucciso qualcuno: quel qualcuno per loro non è mai realmente esistito. Ha quindi ancora ragione Camon quando scrive, “ben venga una legge sui crimini coniugali o famigliari. Peccato che arrivi sotto quel nome, “femminicidio”, che toglie al reato la parte più grave ed odiosa della colpa”.