lucio magri morto

C'è chi teme che che l'eutanasia per i minorenni sia un segno del progressivo scivolamento del diritto alle cure in una sorta di "economia della morte" destinata ad affiancare, e poi a soppiantare, i doveri di assistenza nei confronti dei più malati tra i malati, cioè degli inguaribili e degli incurabili. E c'è invece chi ritiene che la minore età (diciassette anni) del ragazzo "eutanasizzato" in Belgio, di cui parlano le cronache, sia solo una prova ulteriore della assoluta intollerabilità di qualunque pratica che, per consentire una morte migliore, caduchi la vita dei morenti della sua propaggine estrema e peggiore.

Gli uni e gli altri precipitano nello stesso calderone mediatico e la diffidenza dei primi finisce per apparire un rinforzo o una giustificazione della contrarietà dei secondi, come a dire: chi "ammazza" i morenti, estorcendone il consenso con la promessa del sollievo, in realtà vuole liberare il bilancio pubblico dal costo della loro assistenza. Tra gli uni e gli altri c'è però una differenza evidente e del tutto diversi sono gli interrogativi bioetici (e politici) che le loro preoccupazioni esprimono.

In un uguale e contrario calderone mediatico, però, finiscono accomunati anche quanti del diritto a "morire bene" hanno un'idea sostanzialmente diversa e così anche dei presupposti che ne giustificano l'esigibilità e l'esercizio. In un caso c'è chi ritiene che l'eutanasia non sia un intervento specifico - quello che fa morire i malati che chiedono di morire - ma un'obiettivo e un vincolo della relazione terapeutica, che non si realizza solo nella forma dell'astensione dalle cure non più consentite dal paziente (la cosiddetta eutanasia passiva) o in quella della morte indotta (la cosiddetta eutanasia attiva), ma più in generale nell'attenzione a non infliggere ai malati trattamenti inutili e degradanti, al solo fine di prorogarne la vita biologica e a prevenire e trattare il dolore fisico e la sofferenza psicologica connesse a patologie inguaribili, con prognosi infausta. L'eutanasia, quindi, non è "l'iniezione letale", ma è una forma di rispetto della dignità umana del fine vita e di non abbandono dei morenti. L'eutanasia è quel che rimane da fare quando in apparenza "non c'è più nulla da fare".

C'è però anche chi ritiene che per eutanasia sia da intendersi semplicemente il suicidio medicalmente assistito, cioè una "prestazione" volta a far morire chi voglia morire non sopportando il peso della propria condizione o della propria sofferenza. Il caso più famoso, in Italia, non è quello di Piero Welby (che è invece un caso classico di eutanasia), ma di Lucio Magri, che si recò in Svizzera per porre fine ad una vita mortificata dalla depressione e dalla solitudine, dopo la morte della moglie. Magri aveva una malattia che non lo avrebbe fatto morire, né tanto meno morire male, ma che lo faceva vivere male. Il suicidio assistito non gli ha risparmiato lo strazio di una morte dolorosa, ma lo ha liberato da una vita insopportabile. In questo senso, però, lasciando ovviamente da parte qualunque giudizio su questa scelta, non ha senso parlare di "eutanasia", che lenisce il tormento dei morenti, non l'angoscia dei viventi.

L'eutanasia è insomma l'impegno a non fare morire male chi deve morire, cioè patisce le conseguenze di un'irreparabile menomazione delle funzioni vitali, non a far morire chi, in ragione della propria infermità, non vuole più vivere, a prescindere dalla gravità della malattia e dei suoi effetti sulla vita personale. Di questa differenza, a mio parere, dovrebbe tenere conto, anche nella formulazione dei testi legislativi, chi proclama il diritto all'eutanasia e vorrebbe meritoriamente fosse riconosciuto. Nell'eutanasia la morte è l'oggetto, non il mezzo dell'impegno terapeutico. E nel mero suicido assistito, al di là dell'utilizzo di mezzi tecnicamente sanitari (farmaci, dispositivi, ambienti attrezzati, personale autorizzato...), non c'è niente di propriamente terapeutico.

Se pure però si accetta questa distinzione è del tutto incoerente sostenere che il diritto a "morire bene", nell'incombenza della morte, sia riservato ai maggiorenni e non ai minorenni, come se l'assenza di un'autonoma capacità giuridica privasse un adolescente o un quasi diciottenne del privilegio di una morte più umana o, comunque, rispettosa della sua volontà. Decisamente più scivoloso, da punto di vista bioetico, è il caso di bambini e di infanti da cui sia impossibile ricevere, soprattutto in condizioni limite, consensi o dinieghi liberi e consapevoli. Questo però comporta che essi non abbiano il diritto a una morte dignitosa o che i genitori debbano burocraticamente intendere il loro interesse solo in termini di "giorni guadagnati" e non di "sofferenza risparmiata"?

@carmelopalma