Il Dalai Lama sbarca a Roma per partecipare al XIV World Summit dei Nobel per la pace, che avrebbe dovuto tenersi a Pretoria in onore di Mandela ed è stato dirottato in Italia perché il governo sudafricano, su pressione cinese, ha negato il visto di ingresso al leader politico-religioso del buddismo tibetano.

Al suo arrivo in Italia, la cortina di ferro montata dai cinesi attorno alla sua persona, resa molto persuasiva dalla minaccia esplicita di ritorsioni economiche e diplomatiche, gli impedirà qualunque incontro politicamente significativo.

DalaiLama grande

Non lo riceverà nessun membro del governo, nessun esponente dell'establishment economico-finanziario, neppure Papa Francesco, ragionevolmente preoccupato per le conseguenze che la disobbedienza all'ordine di Pechino avrebbe sui fedeli del Pontefice in un Paese che ha ideologicamente nazionalizzato anche il cattolicesimo, e che ha sinistramente contrapposto alla Chiesa Universale una "Chiesa patriottica".

Si potrebbe polemizzare a lungo e del tutto inutilmente sulla intollerabilità morale dell'isolamento di un leader nonviolento diventato, al contempo, una sorta di icona pop della spiritualità contemporanea e un paria della comunità politica internazionale.

L'isolamento del Dalai Lama non è però una scelta, ma una "necessità" imposta dell'accresciuta centralità strategica del regime cinese per le economie sviluppate e della evidente irrilevanza politica della questione tibetana nello scenario delle crisi internazionali.

Quella tibetana non è una crisi, perché non può divenire una crisi globale. Il paradosso è che a congiurare contro qualunque onesto riconoscimento delle ragioni tibetane non sembra solo essere la sproporzione di forze tra Pechino e Dharamsala, ma anche la scelta, tenacemente difesa dal Dalai Lama, di non ripercorrere nessuna delle vie battute dopo il secondo dopoguerra - e in maniera esplosiva nell'ultimo ventennio - dal nazionalismo religioso, ancorando invece la resistenza tibetana a un'etica laicamente nonviolenta e politicamente occidentalistica.

Il Dalai Lama non rivendica alcuna sovranità sul Tibet, ma "soltanto" una ragionevole protezione dall'estinzione per persecuzione e diluizione dell'identità culturale tibetana e dei tibetani sopravvissuti alla colonizzazione cinese. Nulla di "grave", e quindi, oggi, nulla di serio.

Se il Dalai Lama fosse l'Abu Mazen tibetano, il paravento o il relitto vagamente presentabile di un mondo minacciosamente impresentabile e capace di portare l'odio - e massimamente quello religioso - dal piano delle parole a quello dei fatti, allora forse il telefono delle cancellerie occidentali non continuerebbe a squillare a vuoto.

Prendendo tutti realisticamente atto che il Dalai Lama è forbidden, perché ci è stato ordinato così, dovremmo dunque, altrettanto realisticamente, ammettere che il default politico della nonviolenza tibetana è, non solo in Tibet, un gigantesco incentivo alla violenza nei confronti dei nemici e soprattutto nei confronti degli amici, come insegnava Arafat disseminando di stragi un'Europa già di suo decisamente incline a dargli ragione contro Israele.

@carmelopalma