repubblica grande

A distanza di settantasette anni, si può immaginare che molti italiani che nel 1946 scelsero la Repubblica oggi rimpiangerebbero di non avere scommesso su una monarchia costituzionale, per così dire, einaudiana, delineata dal futuro Presidente della Repubblica nel suo articolo su l’Opinione del 24 maggio 1946 (Perché voterò per la monarchia), in cui argomentava in modo persuasivo contro l’illusione che solo la Repubblica potesse essere un presidio di libertà politica e ammoniva sulla sostanziale equivalenza tra la “tirannia di uno solo” e la “tirannia delle assemblea”.

Il fatto è che la monarchia in Italia non avrebbe potuto essere quella che sognava Einaudi per la stessa ragione per cui, dal 1946 in poi, la Repubblica non sarebbe mai diventata quella che sognava Mazzini. Per un peccato originale del rapporto tra popolo e potere – come scambio privato, non come responsabilità pubblica – che la forma di governo democratica monarchica o repubblicana avrebbe in ogni caso replicato e aggiornato, dopo secolari trascorsi non democratici, segnati dalla tabe della sudditanza.

Non è che non conti e non abbia effetto la differenza istituzionale tra uno Stato al cui capo stia un re, assiso sul trono per via dinastica, o un presidente selezionato per via direttamente o indirettamente elettiva. E non c’è dubbio che nel 1946 la monarchia italiana era troppo compromessa con il passato fascista e con le sue vergogne per proporsi come garante della costituzionalizzazione democratica dell’Italia. Ma nella parabola dell’Italia repubblicana avrebbero continuato a rintracciarsi – di fatto fino a oggi – più tracce di passato che di futuro.

Ammessi e concessi i meriti dell’élite politica, di governo e di opposizione, che tenne tutto sommato unito un Paese diviso da diverse fedeltà internazionali e, per alcuni decenni, lo fece prima risorgere e poi marciare alla velocità dei grandi, la Repubblica non riuscì mai a diventare davvero tale e a “universalizzare” libertà e di giustizia, perché gli stessi potenziali beneficiari di questa rivoluzione – i cittadini e le cittadine – non avevano e le élite politiche del Paese non riuscivano, per ragioni diverse, a suscitare un’idea davvero “universale” di giustizia e libertà, che rimasero, nel sentimento dei più, pure maschere di interessi di gruppo, di ceto e di classe.

Alla fine la nostra democrazia del “morto io, morti tutti” ha avuto più consonanze con il funzionamento di una monarchia paternalistica che con quello di una vera repubblica. Detto in modo diverso, non si è riusciti a fare davvero la Repubblica perché non si era riusciti neppure a fare veramente l’Italia.