Trump 1 grande

Sulle vicende di Capitol Hill, Carlo Calenda ha dato prova tanto di efficacia nel posizionamento quanto di banalità nella analisi, la stessa da diversi anni. Ognuno riconduce il “chiodo” di Capitol Hill al martello che si trova a disposizione: il socialista Barca punta il dito contro le diseguaglianze (chi se lo sarebbe aspettato), Calenda sfodera per l’ennesima volta il suo “complesso delle elites”, riconducendo tutto come sempre alla caduta del Muro, da perfetto manuale del piccolo analista geopolitico e a “noi che abbiamo sbagliato, noi che avevamo promesso”. Senza pretesa di verità in tasca e di scientificità nell’approccio, sembrano comunque due letture profondamente sbagliate.

Quel che è successo con Trump è profondamente americano, incardinato nella evoluzione del partito Repubblicano da prima della caduta del Muro. Ha a che fare con l’alleanza stretta con il radicalismo religioso, con la conquista del sud segnata da certi temi e certe accondiscendenze; da un partito che, come segnalava Mitt Romney già nel post 2012, riesce a rivolgersi “a un solo tipo di americano”.

Ha a che fare quindi anche con il lato oscuro di una parabola da molti valutata positivamente come quella di Reagan, demonizzato da sinistra, mitizzato da molti amici liberali che non hanno mai voluto fare i conti con la dimensione del “Dio, Patria e Famiglia” dei due grandi leader conservatori degli anni ‘80. Ha a che fare purtroppo e perfino con il compianto e tanto amato John McCain, che sdoganò il “Tea Party” candidando come Vice un pessimo personaggio come Sarah Palin.

Trump è stato il seme letale che ha incontrato un terreno fertilissimo.

E almeno dopo 5 anni sarebbe il caso di prestare attenzione agli esperti come Mario Del Pero che hanno spiegato in lungo e in largo, dati alla mano, che quella del Trump “presidente degli operai” è una narrazione totalmente falsa. Trump, pur essendo una figura molto diversa dai classici leader repubblicani, si è sposato benissimo con l’elettorato repubblicano, cogliendo bene il mutamento di alcuni sentimenti e rappresentando la base molto meglio di quanto fossero in grado di fare i moderati Romney e McCain e i superati Bush.

Dal punto di vista di un classico elettore repubblicano esistevano tantissime valide motivazioni per votare Trump, che non hanno niente a che fare con le diseguaglianze e gli errori delle elites. Anzi, la radicalizzazione della destra si deve anche al fatto che la sinistra ha avuto il merito negli anni 90 di spostarsi al centro in economia, spingendo sempre più la destra a calcare sul “Dio, Patria, Famiglia” per differenziarsi.

Certo, Trump si è intrecciato con la crisi delle democrazie che coinvolge tutto l’occidente e con fenomeni più grandi dell’America. Ma da questo punto di vista più che all’automartoriamento del “complesso dei buoni” e alla pseudosociologia delle “diseguaglianze”, sarebbe il caso di fare riferimento, dal punto di vista politico, a “La democrazia del narcisismo” di Orsina, e a “La democrazia dei creduloni” di Gerald Bronner sulle conseguenze della liberalizzazione del mercato dell’informazione, su complottismo e social.