Dall’invito ai corretti stili di comportamento allo stimolo a un salutare civismo, sono molte le raccomandazioni che la politica rivolge ai cittadini. Così come sono numerose le campagne messe in campo per istruire, educare, sensibilizzare e prevenire i rischi delle più disparate devianze sociali. Peccato però che la stessa politica, che produce questo nobile sforzo pedagogico dal piedistallo istituzionale che democraticamente le compete, alla prova dei fatti dimostri di non possedere alcune caratteristiche necessarie ad avvalorare il proprio ruolo educativo e la credibilità del medesimo.

Una premessa. Chi scrive queste righe ha avviato circa un anno fa, un progetto di “Educazione sentimentale” per le scuole piemontesi. L’uno per la parte istituzionale, da politico e (a quel tempo) membro dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale, che ha di fatto promosso l’iniziativa; l’altro come docente universitario, responsabile scientifico del progetto stesso. Che è stato, vale la pena ricordarlo, il primo nel suo genere in Italia.

Lo scopo era, in estrema sintesi, quello di stimolare gli studenti dell’ultimo anno di superiori al confronto con l’altro, nel rapporto affettivo e non solo. Questo tenendo soprattutto conto del contesto culturale contemporaneo, e dello straordinario - nonché complesso e controverso - impatto delle tecnologie digitali sulle vite di ciascuno di noi, soprattutto nella sfera relazionale. Il risultato è stato interessante, rivelando la feconda umanità di una generazione spesso poco compresa - ridotta in certi stereotipi che vanno dall’accusa di indifferenza, egoismo, fino al grande classico dell’alienazione, appunto, “da cellulare” - e al tempo stesso il bisogno di umanità che essa manifesta.

Questa capacità e questo bisogno trovano però un profondo radicamento nel confronto con il mondo degli adulti, e - perché no - anche da quello con le istituzioni e la politica. Ai “grandi” i giovani chiedono soprattutto esempi, oltre ad un ascolto che sia sincero, o quantomeno non di maniera. E qui veniamo al punto. Al di là della capacità di ascolto, che ognuno potrà valutare come crede, quali concreti esempi hanno questi giovani dalle istituzioni e dalla politica?

Una generazione che, basta parlarci, fatica a fidarsi e soprattutto ad affidarsi, che vede nel tema del rapporto e delle sue varie implicazioni un importante scoglio emotivo - dove il rischio, ancora più che il tradimento come questione morale, è proprio l’essere delusi e disillusi, quindi sfiduciati - che opinione potrà avere di una politica che dice tutto e il contrario di tutto, in un impressionante vortice di smentite e giravolte? E che legittimazione “adulta” potrà mai avere quel mondo dei grandi che biasima retoricamente l’abuso del telefonino e dei social, quando i politici, i leader di partito, i ministri sono continuamente e furiosamente intenti a twittare e scrivere post, dal contenuto peraltro perentorio quanto provvisorio, quindi variabile e inattendibile?

In altre parole, come possiamo evocare una credibilità delle istituzioni, e con essa la loro autorevolezza pedagogica, di fronte alle nuove generazioni e agli adulti di domani, se queste sono le premesse? E quali modelli pensiamo di offrire a persone che a dispetto dell’età sono estremamente e profondamente ricettive, capaci di riflessioni non banali: che idea si faranno, ad esempio, della comunicazione e della sua fragile autenticità, e quindi che tipo di valore o utilità attribuiranno al confronto?

In un mondo dove le parole non contano più nulla persino ai vertici dello Stato, in cui si può disconoscere senza tema un impegno o una promessa, e in cui la rivendicazione di una essenziale forma di coerenza diventa quasi l’espressione di un idealismo immaturo, che senso può avere investire, anche nelle scuole, sui temi della fiducia, del rispetto, della necessità di un rapporto fondato sul dialogo e sul valore delle parole che lo alimentano?

Se persino nella sua dimensione istituzionale il dialogo si assume corrotto alla radice stessa dell’intenzione che vi presiede, cioè nelle ragioni intime del dialogare, cosa raccontiamo a chi di quel dialogo ha paura? E magari, per sottrarvisi, si rifugia proprio nell’alternativa virtuale di un telefono e del mondo altro che esso contiene e rappresenta.

Questo, poi, per non parlare della qualità del linguaggio politico: altro tema dirimente. Quanti esempi di violenza, volgarità, brutalità offre il dibattito quotidiano ai suoi osservatori più giovani? Forse distratti, ma di certo non incapaci di comprendere come sia contraddittorio e screditato, prima ancora che ipocrita, questo mondo dei grandi. Dalla famiglia, alla scuola, al Parlamento. Molte lezioni, insomma, ma scarsi maestri.

@gabri_molinari