gommonemigranti

Caro Matteo, provo a prenderti in parola e a dialogare con te sulla questione immigrazione. Da qualche tempo studio i fenomeni migratori del continente africano del quale ho esperienza diretta, avendoci vissuto e lavorato come esperto della cooperazione internazionale, e ora sto completando un dottorato sul nesso “migrazioni – sviluppo”. Capisco che l’approccio dello studioso può essere diverso da quello del politico, però, poiché credo che la funzione degli studiosi sia anche quella di analizzare i fatti e fornire delle indicazioni utili ai politici per elaborare delle policy, mi permetto di fare una serie di osservazioni all’articolo da te postato.

Partiamo dall'inizio del tuo post, che riprende un'anticipazione sul tema tratta dal tuo libro fresco di stampa: io non credo che il riferimento al "senso di colpa” sia appropriato per affrontare la tematica delle migrazioni e questo perché, da un punto di vista tecnico, i fenomeni migratori non solo fanno parte delle normali dinamiche legate alla mobilità umana, ma perché i migranti (e in questo caso mi riferisco principalmente a quelli economici) servono sia ai paesi di origine che di accoglienza.

Nel caso specifico del paese di accoglienza Italia, come ben sai, dato il nostro tasso di natalità negativo, i migranti che - come anche da te rilevato - sono spesso le persone "più motivate e competenti", potrebbero in tempi brevi inserirsi nel tessuto produttivo del paese e contribuire a sostenere i bisogni di una popolazione italiana sempre più anziana (contribuendo a pagare le pensioni, con attività di assistenza familiare, etc.).

Certo i critici come Salvini et similia, potrebbero dire che si dovrebbero promuovere i programmi per sostenere le famiglie italiane, e fare più figli, oppure che, dato l’alto tasso di disoccupazione (particolarmente giovanile), si dovrebbe “dare lavoro prima agli italiani”. Queste critiche potrebbero però essere facilmente confutate con i dati reali. Nel primo caso, nonostante le politiche di assistenza alle famiglie, e quindi l’incentivazione a procreare di più, dovrebbe passare sempre un arco di almeno vent’anni prima che i nuovi nati possano entrare nel mondo del lavoro e quindi sostenere le spese del nostro sistema pensionistico, che nel frattempo avrebbe dovuto sostenere un numero sempre maggiore di anziani.

Nel secondo caso invece i dati sull'occupazione degli immigrati in Italia (Eurisko) ci dicono che il 34% di loro si inserisce come lavoratori domestici, assistenti domiciliari per persone non autosufficienti (anziani, malati o bambini), il 24% opera da lavoratore dipendente (operai, infermieri, addetti alla ristorazione, addetti alle pulizie, ecc.), il 14% ha una sua attività commerciale o artigianale, mentre il 9% è in cerca di un’occupazione. Si potrebbe far notare allora che il 14 % di immigrati con un’attività commerciale non solo non tolgono lavoro agli Italiani, ma spesso lo creano, mentre, per capire a chi realmente sottrarrebbero lavoro i migranti, si potrebbe/dovrebbe vedere quanti tra i giovani laureati italiani sarebbe disposto a fare lavori domestici o di assistenza domiciliare o quanti a svolgere i lavori di addetti alle pulizie o alla ristorazione.

Per quanto riguarda invece i paesi di origine, ancora una volta i dati ci possono essere d’aiuto: in questo caso i vantaggi delle rimesse (non solo quelle economiche ma anche quelle sociali, di cui pochi parlano in Italia) sono notevolmente superiori agli svantaggi causati dal brain drain.

Come sicuramente saprai i flussi delle “economic remittances” sono in molti paesi Africani (e non solo) superiori a quelli dell’Overseas Development Assistance (ODA) e iniziano ad essere comparabili con quelli dei Foreign Direct Investments; inoltre, a differenza degli aiuti alla cooperazione (ODA), le rimesse economiche vanno “direttamente” ai beneficiari finali e non si perdono nei mille rivoli dell’assistenza internazionale (che spesso assiste più agli esperti occidentali che i beneficiari). Se poi aggiungiamo le rimesse sociali, e cioè quell’insieme di norme e valori che gli immigrati trovano nel paese di accoglienza e una volta elaborate riportano in patria e/o trasferiscono attraverso i contatti con i familiari e amici e conoscenti, ci rendiamo conto degli innumerevoli vantaggi associati ad esse in termini sociali e culturali (quindi in termini di quell’identità culturale e sociale da te indicata nell’articolo) oltre che economici.

Il rapporto con i migranti non dovrebbe essere allora visto in termini unidirezionali (il nord sviluppato che aiuta il sud sottosviluppato) ma bidirezionali, (che poi è quello che il termine cooperazione o co-sviluppo dovrebbe significare); non si tratta quindi di aiutarli ma in realtà di aiutare loro e noi stessi allo stesso tempo.

Anche se in parte credo di aver chiarito che attraverso le rimesse li “aiutiamo già e meglio a casa loro” e quindi si dovrebbero piuttosto introdurre degli strumenti per far si che le rimesse aumentino piuttosto che si riducano, occorrerebbe capire meglio cosa significa “aiutarli a casa loro”. Se parliamo di migranti economici, allora interventi di cooperazione allo sviluppo (ma bisogna vedere quali e a quali condizioni) potrebbero andare bene, ma se parliamo di rifugiati… beh allora per prima cosa non si sarebbero dovute creare quelle condizioni che hanno fatto si che queste persone si siano dovute o si debbano spostare (guerre e cose simili, ma questo è un altro discorso).

Per i rifugiati economici, non è certo sostenendo con i fondi della cooperazione programmi per il controllo dei migranti nei paesi d’origine, com’è stato fatto con le ultime decisioni prese dall’Unione Europea, che si risponde al problema dei migranti. Si arriva anzi al paradosso di aumentare i fondi della cooperazione per sostenere governi come il Sudan, non certo un esempio per ciò che attiene al rispetto dei diritti umani, perché trattengano i migranti in centri di detenzione nel paese, o si giunge a proporre di creare centri di accoglienza dei migranti in Libia, e lì i migranti vengono già abusati in quelli esistenti.

Ma poi quali sarebbero i parametri da considerare per stabilire un “tetto massimo di migranti” ? L’Uganda con un PIL pro-capite di 675 US$ (2015) e 39 milioni di abitanti accoglie più di 1.2 milioni di rifugiati e l’Italia con quasi 61 milioni di abitanti ed un PIL pro capite di 29,847 US $ non è in grado di accogliere 80,000 migranti (questi sono più o meno i numeri degli sbarchi al luglio 2017, fonte (IOM).

Last but not least nella narrazione sui migranti (non solo quella fatta da te, ma in generale) vedo una contraddizione di termini: i migranti economici sono dei poveri diseredati senza arte ne parte o sono quelli più competenti e privilegiati (uno studio recente sui migrati messicani indica che questi mediamente possiedono un livello di educazione più elevato dell’americano medio)? Nel primo caso, allora, non si avrebbe nessun brain drain, nel secondo il brain drain sarebbe più che compensato dalle opportunità che questi migranti potrebbero creare nel paese d’accoglienza e poi dalle rimesse verso il paese d’origine.

Certo, condivido con te che il problema vero è quello posto dall’assenza di un vero coordinamento a livello Europeo per la gestione dei flussi, anche considerando che la maggioranza di chi sbarca in Italia nel nostro paese non ci vuole rimanere, però non credo che quelle da te proposte siano delle soluzioni che vadano in quella direzione e, da osservatore esterno (vivendo fuori dall’Italia) e studioso del fenomeno, mi sembrano più fatte per rincorrere nello short term “la pancia degli Italiani” che per affrontare organicamente il fenomeno delle migrazioni.

 

PS.: Ma poi, perché se in Italia a luglio 2017 sono sbarcate solo 8500 persone in più rispetto a luglio del 2016 (dati IOM), quest’anno nella psicosi collettiva questi numeri ci appaino “biblici"?