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L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti era stata accolta a Pechino con sentimenti contrastanti. Da una parte, il timore per un politico 'sconosciuto', le cui linee guida in politica estera apparivano avvolte ancora nella nebbia, un’incognita confusamente avvolta da strati di retorica quasi reaganiana (Make America Great Again), tendenze isolazioniste (le promesse di protezionismo commerciale, associato spesso nei comizi alla 'concorrenza sleale' della Repubblica popolare, preoccupavano molto gli osservatori cinesi), elogi filoputiniani e generiche minacce ai 'nemici' degli Usa.

Dall’altra, la speranza che in fin dei conti, una volta scrostata la propaganda, le politiche dell’amministrazione Trump si sarebbero rivelate più realiste di quelle di Hillary Clinton (fautrice del “pivot to Asia” obamiano che doveva contenere l’emergere della potenza regionale cinese), e che lo scacchiere estremo-orientale si sarebbe liberato dalla massiccia presenza americana consentendo più spazi di manovra al gigante asiatico.

In agosto, il candidato Trump aveva persino liquidato come troppo costoso per gli Usa l’ombrello difensivo su Giappone, Corea del Sud ed Europa orientale, suscitando inattese speranze a Mosca e Pechino. Inoltre, l’inattesa vittoria del “populista” repubblicano - con le conseguenti turbolenze e proteste - aveva fornito un ulteriore spunto di riflessione, assieme alla Brexit e all’avanzata dei populisti in Europa, sui limiti della (già infragilita) democrazia occidentale, con indiretto elogio della “oligarchia meritocratica” sperimentata dal Partito comunista.

Manca ancora un mese all’insediamento di The Donald alla Casa Bianca e solo allora, quando l’ex candidato siederà nello Studio Ovale, sarà possibile delinearne le reali intenzioni su come muoversi nel delicato groviglio dei rapporti internazionali. Un (inatteso) antipasto, però, è stato già servito.

Lo scorso 2 dicembre, infatti, Trump ha infranto una consuetudine vecchia di 37 anni rispondendo alla telefonata di congratulazioni giunta dal palazzo presidenziale di Taipei. Nessun presidente statunitense aveva più avuto contatti con i vertici di Taiwan dai tempi del ristabilimento dei rapporti formali tra Usa e Repubblica popolare cinese e dal conseguente addio dell’isola al seggio permanente Onu a beneficio dei comunisti. Un atto di realpolitik che rendeva ormai impossibile ignorare che la Cina fosse governata dai comunisti di Pechino e non dai nazionalisti rifugiatisi a Taipei nel 1949 e che ha di fatto congelato la situazione sullo Stretto, con una “informale” protezione Usa che impedisce la riannessione dell’isola al continente e un’altrettanto “informale” minaccia cinese che ne ostacola la formale indipendenza.

La telefonata di Trump (che, a quanto si apprende dal Washington Post, sarebbe stata in realtà pianificata con anticipo) ha destato le preoccupazioni dei vertici della RPC, già in allerta da quando la democratica Tsai Ing-wen è divenuta presidente di Taiwan, con una piattaforma assai più “indipendentista” dei suoi predecessori.

La reazione non si è fatta attendere: alle proteste formali delle istituzioni cinesi i giornali vicini al partito hanno aggiunto la pubblica denuncia della mancanza di rispetto e dell’inesperienza del futuro presidente americano, ma soprattutto dei “trucchetti” di Taipei, lasciando intendere che la CIna “avrebbe saputo reagire” a ogni provocazione. Poi Stephen Moore, fellow della Heritage Foundation e tra i consiglieri di Trump, ha soffiato sul fuoco affermando che gli Usa di Trump difenderanno la libertà degli “alleati taiwanesi” e che i vertici cinesi “possono fottersi”.

Per essere ancora in attesa di insediarsi, Trump può vantare già una escalation verbale tra le due maggiori potenze globali. Il che non lascia ben sperare per il futuro.

La stessa (ammirevole) fermezza morale che il futuro presidente utilizza per difendere la libertà di Taiwan non sembra, peraltro, sfiorare i suoi giudizi positivi su Vladimir Putin e sulla politica di espansione russa. Eppure, l’atteggiamento di Pechino nei confronti dell’isola “ribelle” non è nemmeno lontanamente paragonabile alle manovre del Cremlino in Ucraina, ad esempio. Le due Repubbliche cinesi, pur “formalmente” nemiche, hanno strettissimi rapporti commerciali ed economici, oltre che culturali e “umani” (turistici, familiari...). Per il Partito comunista, il riconoscimento della “unica Cina” è una questione di principio - mutuata dalla tradizionale associazione tra frammentazione e caos maturata nell’ambito imperiale cinese - che non impedisce di esercitare una certa flessibilità dal punto di vista delle politiche concrete. È in fondo la stessa duttilità che ha permesso a una potenza “comunista” di diventare un gigante capitalista nel XXI secolo.

L’inedita “formalità” della telefonata di Trump è pertanto un grave schiaffo al Partito. E, al di là della soddisfazione di qualche pasdaran anticomunista nostalgico della Guerra Fredda, rischia di essere un regalo a Pechino. Non solo perché metterà ancora più nel mirino del Partito comunista la presidente taiwanese e le sue minacce “secessioniste”, ma anche e soprattutto perché fornisce ossigeno alla propaganda nazionalista del Partito.

Con la presidenza di Xi Jinping, il nazionalismo sembra essere la chiave prescelta per legittimare il potere centrale. Non più (da tempo, ormai) l’utopia maoista e non più solo la crescita economica: il collante più efficace per tenere insieme un paese tanto vasto e socialmente sempre più complesso è, secondo i leader di Pechino, il racconto dell’ascesa di un paese che deve dimostrare la sua caratura al mondo, difendendosi dalle manovre dei “nemici”, piccoli e grandi. I telegiornali cinesi già oggi sembrano bollettini di guerra, in cui si denunciano le macchinazioni degli alleati Usa in Asia Orientale e si ribadisce la potenza militare cinese, che attenderebbe solo - per dirla con Napoleone - di essere “risvegliata”. Non si tratta di un rischio concreto, per ora, ma di certo un atteggiamento di sfida non può che rafforzare la narrazione del Partito comunista, anziché disinnescarla.

Nei giorni dell’avventata telefonata di Trump, Xi Jinping incontrava Henry Kissinger per parlare della necessità di mantenere buoni rapporti tra le due potenze. Un messaggio chiaro (e condivisibile, anche per chi sostiene i cosiddetti “valori occidentali”): alle intemperanze dei nuovi repubblicani è di certo preferibile la realpolitik dei “vecchi”. E pensare che Trump deve ancora entrare nel suo nuovo ufficio.