palma grande

Al governo Monti, a torto o a ragione, spesso si rimprovera di non aver fatto abbastanza, di non aver liberalizzato a sufficienza, di essersi fermato sulla soglia del profondo cambiamento che sarebbe servito a modernizzare l’Italia.

Tuttavia, qualcuna delle riforme proposte fu effettivamente portata a termine. Quella sulla completa liberalizzazione degli orari dei negozi, ad esempio, nel solco di una delle “lenzuolate” di Bersani, è stata completata ed è entrata in vigore, pur tra polemiche e contrarietà quasi generali.

Qualche anno dopo, mentre una grande catena di supermercati comincia a tenere aperti i propri punti vendita 7 giorni su 7 senza interruzione, il fronte, quanto mai eterogeneo, dei contrari alla liberalizzazione degli orari (sindacati dei piccoli esercenti e dei lavoratori del commercio, partiti d’opposizione, la solita Chiesa che ci sta sempre bene) riprende forza.

In Parlamento c’è fermento: una proposta di legge di iniziativa popolare e due DDL a cura di M5S e Lega vengono unificati in un unico disegno di legge che oggi sta arrivando alle battute finali e che, nella forma – sembra – definitiva, dovrebbe imporre agli esercizi commerciali (bar e ristoranti esclusi) almeno 12 giornate di chiusura festiva all’anno, sei delle quali eventualmente derogabili, secondo modalità non ancora chiare.

“Un segnale per i territori, che tiene conto delle esigenze dei piccoli commercianti e dei lavoratori e delle richieste di varie associazioni religiose”: così viene definito il DDL 1629 dai suoi estensori. Un piccolo segnale per loro, una gigantesca pietra tombale per tutti gli altri su quel poco di libertà e di concorrenza che si era riusciti a introdurre nell’ambito del commercio al dettaglio. 

Il problema non sono i sei o dodici o più giorni di chiusura obbligatoria; il problema è il fatto che si torni a imporre per legge delle limitazioni agli orari dei negozi da parte dello Stato, quando si era riusciti ad eliminarle pressoché tutte, lasciandole per gran parte alla discrezione dei singoli esercenti. Questo rappresenta sicuramente un passo indietro per quel che riguarda la libertà d’impresa, e anche per la qualità della vita di chi, lavorando secondo turni "non convenzionali", trova comodo (o, per meglio dire, vitale) poter fare la spesa nei giorni che, per altri, sono festivi.

Certo, questa libertà, in Italia, spesso non viene esercitata nel rispetto dei diritti di tutti; certo, in molti casi, tra assumere nuovi lavoratori per coprire i turni festivi e notturni e spremere fino all’osso quelli che già ci sono, tra offrire incentivi economici ai lavoratori per i turni più lunghi e minacciarli o mobbizzarli per costringerli a lavorare di più senza contropartita, gli esercenti trovano comodo scegliere la seconda opzione. D'altra parte, se la legge, di fatto, glielo consente, non si può nemmeno contestare più di tanto la loro scelta.

Dal canto loro i piccoli esercenti, che spesso gestiscono il proprio negozio da soli o con l’aiuto di qualche familiare, lamentano di non poter reggere, in fatto di orari, la concorrenza della grande distribuzione.

Tutte questioni vere, ed è verissimo che spesso la concorrenza si fa sulla pelle dei lavoratori e, in generale, dei più deboli: tuttavia, cercare di risolvere la situazione supplicando lo Stato-padrone di imporre dall’alto l’obbligo di chiusura per tutti fa parte della tipica ipocrisia italiana, che non cerca di rimuovere le cause dei problemi, ma sceglie di illudere e illudersi che basti un tratto di penna del legislatore a fermare ingiustizie e abusi.

In altre parole, i sindacati che tanto si spendono per l’approvazione di questa legge chiedono, in fin dei conti, che sia lo Stato a levar loro le castagne dal fuoco, a svolgere un compito per cui loro non sono in grado. Tra commesse a partita IVA e salumieri in associazione in partecipazione, il sindacato ha di fatto rinunciato alla tutela dei lavoratori, e pretende che sia lo Stato a surrogare, con la forza, la sua funzione.

Ancora più ipocriti risultano i partiti che, tramite i loro senatori, chiedono di aumentare a dismisura (fino a 60, in un emendamento della Lega) i giorni di chiusura obbligatoria: anziché riformare seriamente un mercato del lavoro in cui vige un apartheid di fatto tra ipertutelati e non garantiti, anziché mettere mano alla giustizia civile in modo che una causa di lavoro non debba rappresentare una garanzia di non trovare mai più un impiego, anziché studiare metodi per assicurare che a fare le spese della concorrenza non siano solo i lavoratori più deboli, preferiscono vietarla tout court, la concorrenza, probabilmente per acchiappare il voto dei piccoli esercenti e di qualche commesso esausto.

Ipocrita la stessa legge, che divide per settori merceologici tra chi può rimanere aperto anche nei 12 giorni fatidici e chi deve per forza rimanere chiuso, e che addirittura affida ai sindaci poteri pressoché illimitati su “gli orari di apertura dei pubblici esercizi e delle attività commerciali e artigianali in determinate zone del territorio comunale interessate da fenomeni di aggregazione notturna, qualora esigenze di sostenibilità ambientale o sociale, di tutela dei beni culturali, di viabilità o di tutela del diritto dei residenti alla sicurezza o al riposo, alle quali non possa altrimenti provvedersi, rendano necessario limitare l'afflusso di pubblico in tali zone e orari”.

Anticamera, questa, di un numero infinito di ricorsi, controricorsi, denunce, esposti, deroghe, controderoghe, liti, cause, manifestazioni e rivoluzioni, col duplice effetto di caricare i sindaci, in un periodo già non facile per gli enti locali, di ulteriori e onerose responsabilità (oppure di dare, a chi ne farebbe pessimo uso, discrezionalità assoluta di decidere chi può tenere aperto e chi no, secondo valutazioni ben lontane dalla salvaguardia della sostenibilità ambientale e sociale) e di ingolfare ulteriormente i tribunali.

Spiegare ai parlamentari italiani che, tra qualche anno, il commercio on line surclasserà quello tradizionale, com’è già avvenuto nel resto del mondo civilizzato, non è consigliabile, dato che l’unica cosa a cui riescono a pensare sono nuove leggi, nuovi decreti, nuovi divieti: già adesso c’è chi, evidentemente ignorando in maniera assoluta ciò di cui parla, propone di imporre la “chiusura” obbligatoria ai siti di e-commerce.

Noi di Strade siamo in grado, in anteprima sui nostri principali concorrenti, di riferirvi una notizia esclusiva su questo: la risata di Jeff Bezos, dal quartier generale di Amazon, si è sentita fino a qui.