Le parole sono importanti, in quest'epoca "confusa" soprattutto. Vale, quindi, la pena soffermarsi sull'affermazione secondo cui la sezione "Amministrazione Trasparente", prevista per il sito web di una serie di soggetti pubblici dal d.lgs. n. 33/2013, permetterebbe la "totale accessibilità delle informazioni sul modello del Freedom of information Act statunitense" e "garantisce l'accessibilità per chiunque lo richieda a qualsiasi documento o dato in possesso della PA, salvo i casi in cui la legge lo escluda espressamente".

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Qualche cenno all'evoluzione del concetto di trasparenza può giovare. Da criterio strumentale alla tutela dell'interesse ("diretto, concreto e attuale") del singolo, limitante la richiesta di accesso ("motivata") agli atti di sua diretta pertinenza ed escludente "il controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni", come previsto dalla legge n. 241/1990, la trasparenza diventa principio di "accessibilità totale" con la c.d. legge Brunetta (d.lgs. n. 150/2009). Essa assurge così a oggetto di un interesse tutelato dall'ordinamento, al fine di "favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità" dell'Amministrazione.

Purtroppo, come spesso accade, il legislatore non realizza concretamente quanto proclama teoricamente: sarebbe bastato prevedere la pubblicazione via web di elementi di conoscenza essenziali riguardanti i soggetti pubblici considerati, consentendo al contempo a ogni cittadino – senza necessità di motivazioni a supporto e nel rispetto delle esigenze di riserbo e segretezza normativamente stabilite – di ottenere dalle P.A. l'accesso alle informazioni, di volta in volta e a qualunque fine, richieste. E' incorso, invece, nel colossale equivoco di ritenere che trasparenza sia sinonimo di pubblicità e, quindi, una dimensione di tipo quantitativo da sostanziare per accumulazione, anziché un criterio qualitativo per garantire esaustività e chiarezza dell'informazione.

La già notevole mole di dati e notizie richiesti dalla legge n. 150, successivamente implementata dalla legge c.d. anticorruzione (l. n. 190/2012), con il decreto c.d. Trasparenza nel 2013 è così divenuta una bulimica e dettagliatissima congerie di obblighi di redazione e pubblicazione, mediante cui il regolatore ha preteso di aver realizzato la total disclosure dell'Amministrazione. Il d.lgs. n. 33 sancisce a carico di quest'ultima appesantimenti operativi di non poco conto, che si traducono in una complessità documentale per la cittadinanza meno esperta. Il fine espresso del "controllo diffuso" risulta così vanificato nel momento stesso in cui – con la diffusione di numeri, informazioni, piani e programmi variamente affastellati – viene affermato: una sorta di "opacità per confusione" ne è il risultato.

E' arduo, infatti, verificare ciò che si dimostra difficile da capire: se la pubblicità equivale a conoscibilità, la trasparenza richiede anche comprensibilità, o rischia di risolversi nel suo opposto. Con il decreto n. 33/2013 il legislatore ha perseverato nell'antico vizio di disciplinare minuziosamente ogni piega dell'ambito considerato, così da far prevalere l'attenzione all'adempimento rispetto all'obiettivo perseguito. Ha così stabilito proattivamente quanto potesse essere pubblicato, anziché limitarsi a prevedere che reattivamente le Amministrazioni fossero tenute a rendere noto quanto richiesto da ogni soggetto. Anche la semplificazione, oltre alla trasparenza, in questo Paese continua a restare un miraggio, e forse non è un caso.

Per questo l'accesso civico di cui all'art. 5 del d.lgs. 33/2012 non può essere paragonato all'accesso generalizzato previsto dal Freedom of Information Act (FOIA) vigente nei Paesi anglosassoni da tempo. Quest'ultimo attribuisce a ogni cittadino il diritto di acquisire le informazioni cui sia interessato, ponendo a carico dell'amministrazione l'onere di provare l'esistenza di cause che impediscano di soddisfarne la richiesta; l'accesso civico, invece, consente ai singoli di pretendere dagli enti inottemperanti di pubblicare quanto lo Stato – graziosamente, abbondantemente, ma mai esaustivamente e sempre troppo complicatamente – ha normativamente previsto, e più non dimandare.  

Il paradigma del FOIA è, quindi, opposto a quello attuato dal regulator statale italiano, sì che improprio sembra il richiamo che a esso viene fatto sovente, soprattutto da parte di governanti nostrani.

L'iniziativa "Adotta una PA" è apprezzabile di certo, ed è utile a far conoscere gli obblighi delle Amministrazioni di divulgare dati e informazioni di propria pertinenza e a rendere ciascuno vigile affinché siano rispettati. Ma la cultura della trasparenza, per essere pienamente perseguita, richiede che il singolo sia concretamente posto nella condizione non solo di verificare che una serie di adempimenti burocratici vengano effettuati, ma che l'azione amministrativa sia effettivamente improntata ai principi per essa costituzionalmente previsti. La accountability non discende dalla pubblicazione di una lista di documenti sanciti per legge, ma dalla capacità di rendere fondatamente conto del proprio operato, a fronte delle specifiche richieste di coloro i cui denari si stanno amministrando e il cui controllo, già solo per tale circostanza, non può essere contenuto entro i limiti ristretti che lo Stato ha deciso.

Il principio espresso dall'On. Filippo Turati nei primi anni del Novecento - "la casa dell'amministrazione dovrebbe essere di vetro" - purtroppo è rimasto un mero intento: se pure si è accesa qualche luce all'interno del Palazzo, ai cittadini non è comunque consentito di illuminare su richiesta gli angoli bui ai quali vogliano avere accesso. In Italia vige un decreto denominato Trasparenza, mediante il quale lo Stato ha declinato il proprio personalissimo criterio di "accessibilità totale": non lo si assimili al Freedom of Information Act, per chiarezza.