alveare big

Ce lo siamo sentito ripetere furiosamente, questo imperativo assoluto, accompagnato da un’espressione di panico mista a quella di un invasamento: prima di tutto, prima di ogni altra cosa, viene la nostra vita. Sfuggire all’epidemia di Covid viene prima della libertà, prima di ogni valore religioso, viene addirittura prima dei riti più ancestrali, che credevamo intangibili, come la sepoltura dei morti. Perché è successo anche questo.

Senza riflettere sul fatto che la vita pura e semplice, priva di qualsiasi orizzonte che le dia valore e ne fondi il senso, è esposta all’insignificanza, si offre spontaneamente e totalmente alla più abietta delle morti. La vita in sé e per sé non può darsi alcun valore.
La velocità, la globalità, la capillarità con cui ogni orizzonte, rituale, credenza intorno alla vita si è dissolto, e soprattutto la nostra completa approvazione di tutto questo, sono le novità sconcertanti che hanno accompagnato la pandemia del 2020. La “vita” intesa in senso naturale ha soppiantato la vita intesa in senso personale come valore e obiettivo politico. Ma cosa ha reso possibile una regressione così repentina?
La paura: è la risposta più ovvia.

Ma qual è la forma di questa paura, la sua struttura, che ne ha acuito la potenza rendendo possibile tutto ciò? Il processo attraverso il quale la paura non solo si propaga, ma si genera non è “cognitivo”, ma è informativo o, per usare un brutto termine specialistico, “comunicazionale”. La diffusione e il montaggio di notizie anche in sé vere, nella loro parzialità, possono suscitare credenze infondate o manifestamente funzionali a un obiettivo. Si può fare una campagna contro la riapertura delle scuole semplicemente “pompando” video che spiegano la trasmissione del virus in ambienti chiusi. O al contrario si possono usare i dati ufficiali, che non riescono a registrare i focolai sviluppatisi sui mezzi di trasporto, per concludere che sulle metropolitane affollate non si contagia nessuno. E basta intestare una qualunque opinione a un virologo noto o a un opinionista tv per polarizzare su di essa uno scontro di accuse predeterminate e estreme: “negazionista”, “terrorista”, “ignorante, “venduto”, “no-vax”… Non importa chi abbia ragione, perchè il seme della paura è ormai gettato. Tra gli “allarmisti” e i “terroristi” si è scavato un fossato invalicabile: li separa ormai un odio incolmabile. Tuttavia, una nuova restrizione è stata tacitamente imposta, senza alcuna discussione, semplicemente sulla base di una informazione. Una informazione indirizzata alla persona giusta.

Chiunque di noi riceve ogni giorno una notizia selezionata per lui da un algoritmo di Google o di Facebook. Una notizia tagliata sul suo profilo di consumatore. La notizia più adatta a scatenarne una reazione emotiva: un commento, un semplice “mi piace”, oppure una condivisione. Una notizia che ne ha confermato le opinioni, che ne ha orientato il comportamento, e che lo ha indotto ne corso della sua giornata a compiere determinati gesti.
Naturalmente, tutte le restrizioni sono andate fino ad oggi nella stessa direzione: quella di rendere difficile o addirittura negare ogni relazione diretta e spontanea, relegare tutti i rapporti sociali all’interno della rete di internet, operare un distanzionamento che non è solo fisico, ma è sociale e politico. Tutti da soli in attesa delle informazioni “giuste”. Senza neppure considerare che rispetto a un virus sconosciuto e una pandemia senza precedenti, le informazioni “giuste” maturano nel tempo, tra errori inevitabili. Ricordiamo cosa dicevano scienziati e istituzioni scientifiche sull’utilità dell’uso preventivo delle mascherine a marzo e aprile?

Dal 2001 Google e Facebook, insieme a tante altre aziende dello stesso settore, hanno imboccato una strada rivoluzionaria per l’economia. I dati che noi quotidianamente immettiamo nella rete sono divenuti la merce da cui esse estraggono profili sempre più predittivi dei nostri comportamenti di consumatori. Tali profili divengono così i prodotti da rivendere nelle aste on-line alle aziende che ne fanno richiesta. Più dati Google ha a disposizione, più precisi diventano i profili estratti dal suo apparato di intelligenze artificiali, più valore di mercato acquisiscono i suoi prodotti.
Ma la cosa non si ferma qui. Tale apparato tecnologico, in grado di analizzare i dati della nostra esistenza e di estrarne gli elementi più significativi, è stato subito messo a disposizione delle amministrazioni dello Stato, a causa delle esigenze di controllo sempre più urgenti dopo l’attentato terroristico dell’11 Settembre. È stato anche ampiamente utilizzato nelle campagne elettorali, allo scopo di orientare le scelte dell’elettorato incerto: è nato in questo modo il capitalismo della sorveglianza, di cui parla la Zuboff nel suo saggio del 2019.

L’informazione dirige, orienta, condiziona i nostri comportamenti. In modo continuo, capillare, seduttivo. Ma questo flusso ininterrotto di notizie, gestito a livello mondiale in un regime natualmente oligopolistico, ha un’altra caratteristica, che ci avvicina al cuore del problema: l’assoluta indifferenza per la verità, la messa tra parentesi del concetto di realtà. Ogni notizia entra a far parte del flusso, senza distinzione tra notizie vere e notizie false. Conta solo la reazione che queste suscitano, la loro capacità di stimolare nuova immissione di dati della nostra esistenza, quando vengono selezionate e inviate alle persone giuste.

L’effetto è la perdita del reale come termine di riferimento e piano di confronto. Più che voler fornire una conoscenza del mondo, si direbbe che queste notizie abbiano lo scopo di creare gruppi sociali accomunati dal fatto di condividere un certo tipo di informazioni, vere o false che siano. Gruppi sociali che non esprimono più idee, ma professioni di fede. Gruppi che strutturalmente non possono più dialogare con l’esterno, perché fondati sulla convinzione di possedere la verità assoluta. Ecco allora nascere la galassia di coloro che un vocabolo, nato inizialmente per indicare chi negava le stragi naziste, stigmatizza come negazionisti. Gruppi di persone che credono in un complotto indefinito che si agita al di sopra delle loro teste; gruppi alimentati quotidianamente da un flusso di notizie ben indirizzato.

L’informazione ha reso quindi possibile qualcosa di sconcertante: la nascita di un gruppo che nega totalmente l’esistenza del virus. Nel flusso dell’informazione, il virus ha così perso ogni consistenza, si è ridotto a nulla. Un gruppo minoritario, certo, ma che ha l’essenziale funzione di poter essere presentato come l’unica, assurda, alternativa per chi non vuole cedere alla paura, al terrore. L’informazione ci fornisce così l’unico orizzonte entro cui possiamo dibattere, ragionare. Ci costruisce una trappola logica e ci indica due sole vie d’uscita: o sei un terrorizzato, o sei un mitomane.
Ma i negazionisti svolgono anche il fondamentale ruolo del nemico per la fazione avversa. Essenziale perché è nel conflitto che un gruppo si sente ancora di più confermato.

Nel flusso dell’informazione il virus può scomparire, ma può anche dilagare in maniera inverosimile. In questo modo, la perdita della realtà ha creato il gruppo opposto: quello di coloro che non riescono a liberarsi dal terrore. Il flusso, ininterrotto e indifferente, genera incertezza, perché è anche contraddittorio. Pareri e opinioni si susseguono negandosi, distorcendo e banalizzando le verità scientifiche. Il virus diviene una entità dai contorni indefiniti, la cui presenza si allarga sempre di più fino a penetrare ogni angolo della nostra esistenza. Non c’è più prescrizione che basti, restrizione che sia sufficiente per sconfiggerlo. Ecco allora il dilagare della nevrosi e del panico.

Le due fazioni, lo abbiamo detto, non possono dialogare, perché ogni riferimento al reale è stato sabotato. Ma entrambe sono funzionali ad uno scopo comune: annebbiare la percezione. Hanno il loro elemento essenziale in questo oscuramento della realtà delle cose. Altro elemento potrebbe essere il senso di impotenza in cui gettano gli individui, mettendoli di fronte a qualcosa che viene mantenuto nascosto e che non si comprende bene.

A questi aspetti della paura se ne aggiungono forse altri due, nati stavolta dalla retorica del terrore che si è impadronita dell’informazione dopo l’11 Settembre. Sono quasi dei reperti archeologici della nostra mentalità, rimessi in vita dalla televisione, dai giornali, dal web.
Innanzitutto, un’idea potente e primitiva, l’idea che la malattia e il contagio siano una colpa. I governatori delle varie regioni della penisola che minacciano nuove restrizioni, lo fanno tuonando contro la nostra irresponsabilità, contro la nostra colpa appunto. La nostra colpa, che in fin dei conti è quella di essere stati contagiati. Una strategia della colpa che è funzionale perché, se ci si sente colpevoli, si finisce per trovare giuste le punizioni, le restrizioni della nostra libertà, la privazione di ogni contatto sociale spontaneo e diretto.
Nel corso di una campagna di sensibilizzazione che invitava gli insegnanti a fare il test sierologico, si sono accusati gli insegnati “renitenti” di mettere a rischio la salute dei ragazzi, mentre lo stesso Ministero della Sanità spiegava a tutti che il test sierologico non serve a verificare la positività al virus, né a rilasciare patenti di immunità.

Ecco allora l’altro reperto ideologico: la paura dell’untore, quella che colpisce chiunque voglia minimizzare le cose, chiunque si mostri tiepidamente impaurito. Questi rischia di essere presentato e percepito come responsabile del contagio, può divenire bersaglio dei terrorizzati, la cui impotenza è divenuta ormai rabbia.
Queste due ultime declinazioni della paura, frutto di una strategia di controllo sociale, probabilmente spingono verso l’avversione anche a regole razionali, proprio perché funzionali a un disegno irrazionale.
Tuttavia, le varie forme si intrecciano, si sovrappongono, si sostengono reciprocamente.
In tutto questo, la grande assente è la politica, messa ai margini di questo processo. Mentre avrebbe avuto lei tutto il diritto/dovere di gestire l’epidemia. Invece il legislatore e il governo sembrano essersi ritirati a rimorchio di una informazione che per il solo fatto di essere insieme più potete e più specifica, più autorevole e più profilata, è in grado di creare maggiore consenso. Hanno lasciato uno spazio pericolosamente vuoto, che chiunque può occupare con un comando salvifico o con una “verità alternativa”. In questo vuoto, ecco giustificarsi l’assoluta libertà con la quale ogni amministratore o responsabile o anche ogni cittadino qualsiasi si sente investito del compito di imporre restrizioni arbitrarie. Viviamo in una sinistra imponderabilità delle regole.
È questa imponderabilità a smascherare la brutale conseguenza del primato assoluto da noi stessi assegnato alla vita: l’assoggettamento della nostra vita, ridotta a semplice e nuda esistenza, ad ogni capriccio e abuso, quasi fossimo stati privati della nostra dignità, del nostro diritto al diritto.

Probabilmente tra non molto tutto ritornerà alla normalità, perché non è possibile prolungare indefinitamente uno stato generalizzato di terrore. E il potere sconcertante dell’informazione, che è venuto alla luce accompagnando questa epidemia, si inabisserà nuovamente. Noi torneremo ad affidarci alla rete, ignari di tutto. Invece, se qualcosa ci ha insegnato l’epidemia, dovremo da ora in poi tener conto dei possibili tentativi da parte del nuovo capitalismo della sorveglianza di convogliare le nostre vite, sottratte alle normali relazioni sociali, all’interno del flusso globalizzato di informazioni “esecutive”; dovremo insomma guardarci dal pericolo della creazione di una moderna società alveare.