latribuna

Sono intervenuti pubblicamente in tre – o almeno tre sono i nomi più grossi – e tutti e tre hanno presentato soluzioni che spaziano dall’idiozia a seri rischi di autoritarismo. Parliamo del problema delle notizie-bufala sul web o, come si dice, delle fake news che secondo il parere di molti sarebbero oggi in grado di condizionare pesantemente i processi democratici e decisionali.

Oltre alle spinte dei ‘media tradizionali’ verso il fact-checking – tardive perché dovrebbe essere il loro pane quotidiano a livello strutturale – negli ultimi giorni tre personaggi hanno proposto una loro soluzione per abbattere le fake news: il garante Antitrust Giovanni Pitruzzella, Beppe Grillo e, infine, Enrico Mentana (ci sarebbe anche il ministro Andrea Orlando che propone di responsabilizzare le piattaforme di social media, ma il discorso si farebbe troppo lungo).

Le proposte più preoccupanti arrivano dai primi due. Pitruzzella in un’intervista al Financial Times auspica nientemeno che un network di agenzie pubbliche “terze” coordinate a livello europeo che controlli le notizie, le marchi, se è il caso, come fake news (ma perché, come si chiede l’esperto debunker Paolo Attivissimo, dovrebbe valere solo online?) e arrivi anche a oscurarle e sanzionarne gli autori. Secondo il garante le compagnie come Facebook non hanno il dovere di controllare e regolare l’informazione, attività che sarebbe “storicamente compito dei poteri pubblici” che “devono garantire un’informazione corretta”.

Questi organismi pubblici inoltre servirebbero per mettere finalmente qualche briglia nel Wild Wild West della Rete. Il problema è che Pitruzzella – che è un fine giurista - pare non avere idea del fatto che anche nel web esiste lo stesso stato di diritto che esiste nel mondo ‘reale’, non è affatto il selvaggio West: se un contenuto è diffamatorio o si spinge verso il procurato allarme, come tale verrà trattato (o, meglio, dovrebbe essere trattato), se chi l’ha scritto non lo ha firmato, ci sono gli strumenti tecnici per individuarlo, anche perché l’anonimato vero e proprio è quasi una chimera, complesso da ottenere e non alla portata della maggioranza dei navigatori.

Da una premessa confusa arriva poi una proposta sconcertante: affidare il controllo dell’informazione a un organismo statale, che per quanto possa essere, nelle intenzioni, sganciato dalla maggioranza di Governo, rimane sempre un controllo pubblico troppo esteso, che si espone facilmente al rischio di divenire un controllo tipico dei regimi autoritari e totalitari: chi garantisce che la censura pubblica (che sia la rimozione o l’oscuramento, bypassabile peraltro) avvenga solo sulle fake news e non anche su contenuti ‘scomodi’ ma verosimili? È davvero auspicabile un’autorità statale che decida cosa è vero e cosa è falso? Tenderemmo per il no, grazie.

La seconda proposta, che nuota nel mare dell’idiozia e trasuda populismo, è quella fatta da Beppe Grillo proprio in risposta al “tribunale governativo” di Pitruzzella e come aperta ripicca contro la stampa (e La Stampa) che attacca il suo M5S:

Propongo non un tribunale governativo, ma una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Cittadini scelti a sorte a cui vengono sottoposti gli articoli dei giornali e i servizi dei telegiornali. Se una notizia viene dichiarata falsa il direttore della testata, a capo chino, deve fare pubbliche scuse e riportare la versione corretta dandole la massima evidenza in apertura del telegiornale o in prima pagina se cartaceo. Così forse abbandoneremo il 77° posto nella classifica mondiale per la libertà di stampa.

Chissà se vale anche per i blog, tipo il suo, quando pubblica notizie di grandi successi per il Capodanno a Roma pubblicando foto del Capodanno 2015, o le foto delle immense platee al suo seguito, scattate però a eventi in cui lui non c’era. O quando impartisce lezioni sui grandi benefici di strumenti magici per lavare i panni in lavatrice e dire addio al detersivo. Chissà soprattutto se quella classifica sulla libertà di stampa – che Grillo e i suoi insistono nel citare senza averne capito il senso – non ci vedrebbe sprofondare ancora più in basso nel caso si mettesse in pratica un progetto così violento e intimidatorio verso la libertà e la professionalità dei giornalisti.

La terza proposta è di portata più limitata ma non è meno pericolosa, ed è quella del direttore del Tg di La7, Enrico Mentana, quello che ha coniato il termine “webete”, e che ieri ha querelato Grillo per aver accostato il suo telegiornale a quelli che, dice il boss del M5S, “sono i primi fabbricatori di notizie false”. L'ha spiegata in una intervista al Fatto Quotidiano.

L'unica arma davvero efficace è l'identificazione diretta. Dovrebbe esserci l'obbligo di certificare la propria identità e quindi di essere riconoscibile. Capita che si esprima il proprio pensiero e ci siano commenti del tipo ‘stai zitto bastardo di merda’, firmato da XYZ. Indenunciabile. L'identità non può essere nascosta: puoi essere libero di dire ciò che vuoi, ma devi metterci nome e cognome. Il vero nemico, in una società libera, è l'anonimato.

È una fesseria: perché è una soluzione che non funziona, e perché anche su Facebook e Twitter, gli esempi che lui stesso ha sotto gli occhi, dove tendenzialmente l’anonimato non esiste e dove nomi e cognomi si vedono, i comportamenti penalmente rilevanti sono un dato di fatto; in terzo luogo, perché l’anonimato in rete è un fattore di libertà: senza scomodare i regimi autoritari, senza anonimato Snowden e le sue rivelazioni sui programmi di sorveglianza di massa non ci sarebbero stati e noi oggi non avremmo alcuna cognizione degli abusi indiscriminati del potere statale e saremmo, in definitiva, meno liberi. Quella dell’abolizione dell’anonimato è una ‘fissa’ condivisa da molte persone, ma è una non-soluzione semplicistica a un problema che ha una portata diversa e più ampia.

Ma esiste una soluzione? No. Ne esistono tante e vanno combinate insieme, sapendo che qualcosa rimarrà comunque fuori, esattamente come nel ‘mondo reale’. Prima di tutto però bisogna capire che le fake news non sono nate oggi, sono sempre esistite, in molti casi si chiamavano – e si chiamano tuttora – propaganda politica, in altri è semplice disinformazione 'fisiologica', in altri ancora, qui sì ci sono elementi di novità, ci troviamo davanti a sistemi più o meno raffinati per generare introiti. Ma in nessun caso da sole cambieranno le sorti del mondo, perché sono solo l’indice di un problema ben più complesso portato dalla diffusione su larga scala dai nuovi strumenti tecnologici.

Le soluzioni non possono però passare attraverso un’estensione del controllo pubblico sull’informazione (che rimane per i fatti sanzionabili già oggi, ma deve essere limitato) e da una pericolosa censura di Stato, né dalla consegna di tale potere a un ridicolo tribunale del popolo, presumibilmente espressione di un regime autoritario. E l’identificazione forzata per avere accesso alla rete, oltre ad essere inefficace, implicherebbe un controllo esterno ancora maggiore e indefinito sulle informazioni personali di ciascuno di noi.

Serve semmai un grande sforzo plurale, difficile e impegnativo per tutti, utenti compresi. Da un lato i produttori, vecchi e nuovi, di informazione devono riconquistarsi la fiducia del pubblico, rimodellandosi, investendo in qualità anziché in sola quantità/velocità (va bene il fact-checking, ma deve essere parte di un’azione sistemica, non l’ennesima cosa à la “giornalismo anglosassone” che si fa due volte all’anno per mettere la bandierina).

Dall’alto lato – ed è il punto cruciale – serve una cultura (e un’educazione che parta dalle scuole, qui sì serve anche il potere pubblico) digitale che fornisca i mezzi per selezionare con cura le fonti di informazione e per procedere a verifica minima della loro attendibilità caso per caso; che aiuti in definitiva le persone a responsabilizzarsi all’interno di una realtà diversa da quella conosciuta fino a poco fa ma non meno vera, e a districarsi in un mondo di strumenti formidabili e potentissimi, e per questo pieni di insidie, soprattutto in un Paese con un marcato problema di “digital divide” e in cui le competenze per farne un uso sapiente sono estremamente basse.