La tradizione musicale italiana non è certo estranea a quel variopinto e variegato filone discografico che, per pura semplificazione giornalistica, viene comunemente definito "trash": dal leggendario "Muscolo Rosso" di Cicciolina al ricercatissimo "Amore" firmato Alessandra Mussolini, passando per il venerabile "Tengo 'Na Minchia Tanta" del maestro Frank Zappa e l'impareggiabile duetto tra Silvio Berlusconi e Mariano Apicella.

Da oggi, nella lunga e ingloriosa discografia del trash tricolore possiamo a buon titolo annoverare "Famme Cantà", singolo di debutto del senatore Antonio Razzi, che intraprende la carriera musicale nel tentativo di eguagliare il suo "proprietario" (sic) Silvio Berlusconi. Evidentemente, le rate del celebre mutuo sono particolarmente esose.

Razzi grande

"Chiedo solo il rimborso spese per arrivare alla fine del mese", "caro amico, te lo dico da amico: io penso a li cazzi miei", "famme cantà, famme magnà". Con liriche dalla metrica e dalla poetica dylaniane, il senatore di Forza Italia dà il la ad un progetto che, di certo non per le discutibili doti canore espresse, è diventato in poche ore un fenomeno virale.

La notizia giunge in ogni bar come una manna dal cielo: in questi tempi di magra, in cui ogni sguardo è rivolto ad Atene, si avvertiva l'incolmabile vuoto lasciato da un qualcosa per cui indignarsi. A noi, invece, piace guardare la questione da una prospettiva differente, certamente più grottesca e paradossale.

Inconsciamente, e in modo del tutto involontario, per una volta nella sua breve ma intensa carriera politica, ad Antonio Razzi va riconosciuto un merito tanto bizzarro quanto innegabile. Non avendo politicamente nulla da perdere, il senatore abruzzese ha il coraggio – faccia tosta la chiameremmo, se quella non l'avesse persa da tempo – di consegnarci una testimonianza diretta e autentica del reale funzionamento della democrazia italiana e dei meccanismi di selezione della classe dirigente del paese.

In tempi di stucchevoli ipocrisie, di aule riempite da soggetti teletrasportati in Parlamento senza nemmeno sapere come e perché ci siano finiti, il buon Razzi è l'unico ad ammettere, senza mezzi termini, di aver intrapreso la carriera politica per tentare la fortuna pecuniaria. L'episodio è ancora più emblematico se si pensa che lo ha fatto muovendo i primi passi – così come il collega Domenico Scilipoti – con una candidatura tra le fila del re dei moralisti, Antonio Di Pietro, per giunta nella circoscrizione degli italiani all'estero, ove occorre raccogliere preferenze per essere eletti. Ha poi proseguito, per sua stessa ammissione, concedendosi al miglior offerte al momento giusto, in listino bloccato: altra legislatura, altro giro di giostra.

La strampalata disavventura politica e musicale di Antonio Razzi, tessitore abruzzese, residente in Svizzera e con la passione per la Corea del Nord, è il più grande sponsor in favore del realismo politico che questo paese ricordi da tempo immemore. Ci rammenta che la classe politica non viene catapultata su Montecitorio da Marte, ma è scelta tramite un sistema di selezione che rispecchia fedelmente – per quanto agli italiani non piaccia sentirselo dire – vizi, virtù, modi di essere e pensare del Belpaese.

C'è chi, a sua insaputa, possiede beni immobiliari. Razzi, a sua insaputa, ha lanciato un monito agli italiani. Per dirla con Frankie Hi NRG, "quando sei in cabina e giochi la schedina, ricordati che sei colonna di un sistema. Valuta un po' prima: rametto o bandierina? Scegli attentamente il tuo prossimo problema". Sul fronte indignazione siamo campioni olimpionici; in fatto di scelta consapevole dei nostri rappresentanti, però, militiamo al massimo nelle serie dilettanti.