C’è stato un momento, al tramonto, in cui riuscivi ad apprezzare tutto quel che c’era da apprezzare in una serata del genere. Il Palatino alle destra, i pini in alto sulla sinistra e dietro di loro il cielo di Roma che si tingeva di quel rosa intenso che chi vive a Roma conosce bene e nel quale chi, come me, è rimasto tanti anni lontano da Roma, non riesce a non immergersi. E i Rolling Stones nel prossimissimo futuro, di lì a poco, a pochi metri (o poche centinaia di metri, ma in quei momenti non stai a sottilizzare).

rollingroma

Fino a quel momento lo sguardo seguiva la marea umana che si riversava in un Circo Massimo che continuava a riempirsi anche quando era già pieno. Lungo lungo, con il palco sul fondo, senza settori separati da corridoi e senza vie di fuga. Sembrava di stare nell’invaso del Vajont, e l’impressione non era affatto tranquillizzante. Ad accorgersi della situazione un ragazzo americano vicino a noi, che ci chiede se qui funziona sempre così: “it’s insane” ripete in continuazione guardandosi attorno preoccupato, e non riuscivi a dargli torto: se vuoi fare un concerto in un’area che non è uno stadio, devi attrezzarla come uno stadio, altrimenti è meglio lasciar perdere.

Alla mia sinistra una scala in metallo, l’unica, che risaliva il pendio del Circo Massimo dal lato dell’Aventino. Quando provo a percorrerla per raggiungere i pisciatoi sulla cima mi ferma un solerte ragazzotto della sicurezza: “Nunzepò”, mi fa, con quella tracotanza infastidita che nel nostro paese si indossa sempre insieme a una divisa, qualsiasi divisa, anche una maglietta nera con una linguaccia rossa e un cartellino al collo con scritto “staff”. La scala traballante è piena come una tribuna, ormai, e anche se c’è scritto “uscita di emergenza” hanno rinunciato a tenerla libera. “Passi de là”, mi dice, indicandomi il pendio stracolmo di gente. Rinuncio e me la tengo. La scala sarà liberata più tardi, per fortuna, a concerto iniziato.

Ore dopo, all’uscita, raggiungiamo la fermata della Metro a Piramide, smadonnando la scelta di chiudere quella del Circo Massimo ma comprendendone, in fondo, le ragioni: troppo casino se tutti e 70.000 avessero tentato di infilarsi là sotto. Di lì in poi, il delirio: la fila alle macchinette per fare i biglietti che incrociava quella ai tornelli (l’idea di “bene comune” che pretende che i trasporti urbani debbano essere gestiti da società pubbliche non avrebbe suggerito l’opportunità di tenere aperti i tornelli?), e soprattutto la scoperta che solo la linea B funzionava fino a tardi. E perché? Non ne ho idea, e dubito che sia possibile trovare una ragione valida, se qualcuno la conosce me lo faccia sapere. La linea A no, e chi deve andare di là si fotta, e nemmeno la linea B1, quella che si separa dalla B per andare verso Conca d’Oro.

Io, che avevo lasciato la macchina vicino alla fermata di viale Libia, appunto sulla B1, decido di scendere alla stazione Tiburtina: lì sarà più facile trovare un taxi, e lo pensiamo in tanti. Neanche per sogno: di taxi nemmeno l’ombra, le linee dei radiotaxi sono occupate, per cui stai lì e aspetta, povero coglione, che prima o poi ne passerà qualcuno sul quale gettarti feroce come un maialino alla tetta della scrofa, sgomitando i tuoi compagni di viaggio e di sventura in una città che è sempre più l’immagine iconizzata della desolazione.

Prima di tutto ciò, i Roling Stones, e il sentimento fortemente ambivalente che nutro nei loro confronti, tra il fastidio e il rispetto che rasenta (e spesso supera) la commozione: fastidio per quelle stramaledette magliette gialle o verdi, residuati di un insopportabile kitch inglese anni ‘80 che non era neanche roba loro, fastidio per le mossette di Mick Jagger (ma anche amore per le mossette di Mick Jagger, e per il sorriso di Keith Richards nascosto sotto le rughe profondissime). Fastidio per un’organizzazione che, nonostante le risorse finanziarie che anche ieri sera abbiamo messo loro a disposizione, si ostina a mettere in scena uno show tremendamente trasandato (non minimalista, che è altra cosa: proprio sciatto e trascurato) a cominciare da un palco troppo basso per essere visto da lontano e da una regia sui maxischermi da sagra di paese.

Fastidio anche per una scaletta fatta solo di classici, senza chicche né sorprese, per cui ad ognuno la sua perla (la mia è Honky Tonk Woman) e nulla più. Però anche straordinaria ammirazione per un motore che continua ad andare meravigliosamente bene sotto una carrozzeria che non nasconde i segni del tempo. Ieri ha trovato il giusto (e alto) numero di giri dopo un po', durante Respectable, cantata insieme a John Mayer, e da quel momento lo show è decollato, per atterrare alla fine di due ore e spicci (sì, due ore: pensavo meno, pensavo che non avrebbero retto) di only rock and roll. Solo classici, sì, ma che classici, quindi viva i classici! E menzione d’onore per Ronnie Wood in serata straordinariamente ispirata: l’unico, forse, ancora capace davvero di divertirsi a divertire, o almeno capace di farlo capire.

E poi arriva il momento in cui, sui saluti finali, loro quattro si staccano dal resto della band e avanzano insieme per l’ultimo inchino. Ed è il momento in cui ti rendi conto della straordinaria grandezza di chi ti sta davanti, e senti lungo la schiena (è banale parlare di brividi?) il valore di quello che che quei quattro anziani signori hanno fatto alla musica, al mondo dopo di loro, e al senso delle cose. E alla fin fine basterebbe solo quello: agli amici snob che alzano il sopracciglio di fronte all’età degli Stones (Jagger e Richards sono coetanei di Mario Monti) si può far sempre notare che negli ultimi anni Roma è invecchiata e declinata peggio di loro.