Gli Stones in una Roma che declina più rapidamente di loro
Terza pagina
C’è stato un momento, al tramonto, in cui riuscivi ad apprezzare tutto quel che c’era da apprezzare in una serata del genere. Il Palatino alle destra, i pini in alto sulla sinistra e dietro di loro il cielo di Roma che si tingeva di quel rosa intenso che chi vive a Roma conosce bene e nel quale chi, come me, è rimasto tanti anni lontano da Roma, non riesce a non immergersi. E i Rolling Stones nel prossimissimo futuro, di lì a poco, a pochi metri (o poche centinaia di metri, ma in quei momenti non stai a sottilizzare).
Fino a quel momento lo sguardo seguiva la marea umana che si riversava in un Circo Massimo che continuava a riempirsi anche quando era già pieno. Lungo lungo, con il palco sul fondo, senza settori separati da corridoi e senza vie di fuga. Sembrava di stare nell’invaso del Vajont, e l’impressione non era affatto tranquillizzante. Ad accorgersi della situazione un ragazzo americano vicino a noi, che ci chiede se qui funziona sempre così: “it’s insane” ripete in continuazione guardandosi attorno preoccupato, e non riuscivi a dargli torto: se vuoi fare un concerto in un’area che non è uno stadio, devi attrezzarla come uno stadio, altrimenti è meglio lasciar perdere.
Alla mia sinistra una scala in metallo, l’unica, che risaliva il pendio del Circo Massimo dal lato dell’Aventino. Quando provo a percorrerla per raggiungere i pisciatoi sulla cima mi ferma un solerte ragazzotto della sicurezza: “Nunzepò”, mi fa, con quella tracotanza infastidita che nel nostro paese si indossa sempre insieme a una divisa, qualsiasi divisa, anche una maglietta nera con una linguaccia rossa e un cartellino al collo con scritto “staff”. La scala traballante è piena come una tribuna, ormai, e anche se c’è scritto “uscita di emergenza” hanno rinunciato a tenerla libera. “Passi de là”, mi dice, indicandomi il pendio stracolmo di gente. Rinuncio e me la tengo. La scala sarà liberata più tardi, per fortuna, a concerto iniziato.
Ore dopo, all’uscita, raggiungiamo la fermata della Metro a Piramide, smadonnando la scelta di chiudere quella del Circo Massimo ma comprendendone, in fondo, le ragioni: troppo casino se tutti e 70.000 avessero tentato di infilarsi là sotto. Di lì in poi, il delirio: la fila alle macchinette per fare i biglietti che incrociava quella ai tornelli (l’idea di “bene comune” che pretende che i trasporti urbani debbano essere gestiti da società pubbliche non avrebbe suggerito l’opportunità di tenere aperti i tornelli?), e soprattutto la scoperta che solo la linea B funzionava fino a tardi. E perché? Non ne ho idea, e dubito che sia possibile trovare una ragione valida, se qualcuno la conosce me lo faccia sapere. La linea A no, e chi deve andare di là si fotta, e nemmeno la linea B1, quella che si separa dalla B per andare verso Conca d’Oro.
Io, che avevo lasciato la macchina vicino alla fermata di viale Libia, appunto sulla B1, decido di scendere alla stazione Tiburtina: lì sarà più facile trovare un taxi, e lo pensiamo in tanti. Neanche per sogno: di taxi nemmeno l’ombra, le linee dei radiotaxi sono occupate, per cui stai lì e aspetta, povero coglione, che prima o poi ne passerà qualcuno sul quale gettarti feroce come un maialino alla tetta della scrofa, sgomitando i tuoi compagni di viaggio e di sventura in una città che è sempre più l’immagine iconizzata della desolazione.
Prima di tutto ciò, i Roling Stones, e il sentimento fortemente ambivalente che nutro nei loro confronti, tra il fastidio e il rispetto che rasenta (e spesso supera) la commozione: fastidio per quelle stramaledette magliette gialle o verdi, residuati di un insopportabile kitch inglese anni ‘80 che non era neanche roba loro, fastidio per le mossette di Mick Jagger (ma anche amore per le mossette di Mick Jagger, e per il sorriso di Keith Richards nascosto sotto le rughe profondissime). Fastidio per un’organizzazione che, nonostante le risorse finanziarie che anche ieri sera abbiamo messo loro a disposizione, si ostina a mettere in scena uno show tremendamente trasandato (non minimalista, che è altra cosa: proprio sciatto e trascurato) a cominciare da un palco troppo basso per essere visto da lontano e da una regia sui maxischermi da sagra di paese.
Fastidio anche per una scaletta fatta solo di classici, senza chicche né sorprese, per cui ad ognuno la sua perla (la mia è Honky Tonk Woman) e nulla più. Però anche straordinaria ammirazione per un motore che continua ad andare meravigliosamente bene sotto una carrozzeria che non nasconde i segni del tempo. Ieri ha trovato il giusto (e alto) numero di giri dopo un po', durante Respectable, cantata insieme a John Mayer, e da quel momento lo show è decollato, per atterrare alla fine di due ore e spicci (sì, due ore: pensavo meno, pensavo che non avrebbero retto) di only rock and roll. Solo classici, sì, ma che classici, quindi viva i classici! E menzione d’onore per Ronnie Wood in serata straordinariamente ispirata: l’unico, forse, ancora capace davvero di divertirsi a divertire, o almeno capace di farlo capire.
E poi arriva il momento in cui, sui saluti finali, loro quattro si staccano dal resto della band e avanzano insieme per l’ultimo inchino. Ed è il momento in cui ti rendi conto della straordinaria grandezza di chi ti sta davanti, e senti lungo la schiena (è banale parlare di brividi?) il valore di quello che che quei quattro anziani signori hanno fatto alla musica, al mondo dopo di loro, e al senso delle cose. E alla fin fine basterebbe solo quello: agli amici snob che alzano il sopracciglio di fronte all’età degli Stones (Jagger e Richards sono coetanei di Mario Monti) si può far sempre notare che negli ultimi anni Roma è invecchiata e declinata peggio di loro.