Ma quale Djokovic! Il vero Spartaco della sport fu Starostin, tra le follie della Russia staliniana
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Talvolta, basta una parola, e una vaga memoria si riscuote. Ha detto il padre di Djokovic che suo figlio “è come Spartaco”. Spartaco, lo schiavo che volle la Libertà. Spartaco. Spartak. Mosca. Spartak Mosca (la mia memoria iniziale risaliva ad un qualche remoto “Mercoledì Sport”).
Siamo nel 1935, e lo Spartak era già una squadra di calcio singolare: perché, unica, era stata costituita al di fuori del consueto legame con l’Apparato, proprio invece delle altre (Dinamo Tiblisi, Lokomotiv, CSKA, Torpedo, ecc). Ad essere precisi, era quella che noi avremmo chiamato una “polisportiva”, dato che comprendeva squadre di pallavolo, basket, equitazione, pugilato, nuoto.
Tuttavia, aveva voluto quel nome Nikolaj Petrovic Starostin, il fondatore, che era un calciatore: un campione; sicchè Spartak sarà soprattutto una cosa di pallone. Nikolaj Petrovic era riuscito a convincere Alexander Kosarev, Segretario del Komsomol (l’Unione dei Giovani Comunisti) della bontà dell’iniziativa.
Nome ispirato, secondo alcuni (“Avvenire”), dalla lettura dell’omonimo romanzo di Raffaele Giovagnoli (tradotto in varie lingue, russo compreso; piacque anche a Gramsci, per il suo carattere “popolare”), giovane partecipante alla Repubblica Romana del 1848 e, in seguito, tenace militante nel Risorgimento e letterato. Secondo Jim Riordan, studioso e scrittore inglese (autore di varie pubblicazioni su sport e libertà al tempo dei sovietici), invece, l’idea gli venne pensando agli “spartachisti” di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht.
Come che sia, fu “Spartak”. Starostin non solo era un talento sul campo, asso anche della Nazionale, ma era realmente “popolare”: in un contesto socio-politico in cui il Popolo avrebbe vissuto infinite carneficine e abomini, ad opera di una schiatta di satrapi ed impostori, egli era nato, 1902, nella “Krasnaja Presnja" (la Presnja Rossa), quartiere-simbolo e cuore operaio di Mosca, e ne aveva ricevuto affetto e identità profonde.
Con i suoi ragazzi aveva riscosso un tale favore da finire “all’attenzione” di Stalin. Così, un giorno del 1936, sulla Piazza Rossa, venne steso “un tappeto di 12000 metri quadrati, più grande di quello costruito per un re persiano, il più grande della storia", ricorderà poi Starostin. E, su quella specie di faraonico “tappeto da calcio”, non meno surreale che comunista, lo Spartak si esibí, con la seconda squadra a fare da starring partner.
Stalin, che di calcio sapeva quanto di libertà e democrazia, tuttavia si divertí, fugando i timori della vigilia (tanto che erano stati previsti solo due tempi di 15’, e alla fine se ne giocarono 48). Ma c’era Lavrentij Berija. Starostin lo conosceva bene: “Avevamo giocato varie volte contro durante gli anni Venti. Pochi lo sanno, ma Berija è stato un ottimo calciatore. Era un duro, picchiava molto, e sul campo avevo avuto con lui anche qualche screzio"; e, soprattutto, era patron della Dinamo, emanazione del Ministero dell’Interno, che aveva subito l’affronto di non essere stata prescelta per mostrare le bellezze pedatorie al Capo, e il cui sghembo sorriso era stato largito allo Spartak di Starostin.
Berija non era ancora l’infame direttore dell’infame NKDV (lo sarebbe diventato nel 1938), e perciò non era presente nella tribuna d’onore che si divertí quel giorno (anche la restante Nomenklatura presente gradí), ma era già abbastanza potente da poterla giurare a Starostin. Che le cose volgessero al brutto, d’altra parte, Starostin dovè capirlo chiaramente due anni dopo, quando Kosarev (Komsomol), fu arrestato e quindi fucilato come “Nemico del Popolo”. E peggio andarono quando, nel 1939, si ebbe un altro episodio, che dovette definitivamente precipitare le sorti di Starostin.
Nella semifinale di una qualche Coppa sovietica, lo Spartak battè la Dinamo 1-0. L’arbitro, Ivan Gorelkin, era molto stimato nell’ambiente calcistico, e non si potè obiettare nulla. Per lo meno, non subito. E lo Spartak vinse poi anche la finale. Berija, furioso, dopo poco, pur a torneo concluso, impose che si ripetesse la semifinale: per chiarire l’antifona, Gorkekin era stato arrestato. Nonostante il nuovo arbitro, ligio al Partito, lo Spartak vinse di nuovo: 3 a 2, alla fine di una partita a morire. Giunto alla tribuna delle Autorità, dove ora Berija troneggiava, Starostin lo vide schiumare e lasciare lo stadio fra un tempestoso turpiloquio.
Così, “una mattina alle sei vennero a prendermi. Erano due colonnelli del Kgb, mi dissero: 'cittadino Starostin, lei è accusato di atti di terrorismo contro alti dirigenti dello Stato'. Risposi che era assurdo, che si sbagliavano, ma dentro di me avevo già capito che non avevo alcuna via di scampo".
Era il 20 Marzo del 1942, e ormai Berjia era potentissimo; perdipiù, nel frattempo, “nel biennio ‘38/‘39 lo Spartak dominò il calcio dell'Unione Sovietica: per due anni consecutivi vincemmo coppa e campionato. Il nostro portiere parò dodici rigori su dodici. Io, dopo un ultimo campionato da capitano-allenatore avevo smesso di giocare e facevo soltanto l'allenatore”.
Lo portarono alla Lubjanka, e per due anni venne tenuto nei sotterranei in una cella d'isolamento. Gli comunicarono (ovviamente, il KGB non faceva nemmeno finta di “contestare” un qualche reato; li “comunicava”) “che ero un pericoloso terrorista, che facevo parte di un gruppo sovversivo, in procinto di uccidere Stalin, di cui facevano parte anche i miei tre fratelli.”.
Sí, perchè Nikolaj Petrovic, figlio di un guardaboschi dello Zar, era il maggiore di quattro fratelli, con cui "eravamo una squadra nella squadra". Stella del calcio sovietico e beniamino del Popolo, insieme ad Alexander, Andrei e Petr, fu condannato a “dieci di anni di Gulag meno sedici”; la curiosa locuzione indicava che, dopo il Gulag, gli sarebbe stato comunque interdetto a vita l’accesso alle maggiori sedici città dell’Unione. S’intende che la condanna seguí una confessione: “Pochi giorni prima del processo mi diedero da firmare una dichiarazione di colpevolezza, minacciando gravi conseguenze per mia moglie e mia figlia. Firmai". Lucido nella disperazione, Nikolai pensó: “era come se avessero riconosciuto la mia innocenza. Era una pena ridicola, per atti di terrorismo allora non si sfuggiva alla fucilazione.”
Fame e freddo. Ma, fra le tenebre, si può sempre intravedere un baluginío, o persino una luce, come ha testimoniato pure Primo Levi. Dopo un anno al campo petrolifero di Ukhta, nel circolo polare artico, quindi a Khabarosk, ai confini con la Cina Settentrionale (dove, nota Alberto Flores d’Arcais, in un articolo da cui ho tratto alcune citazioni di Starostin, apprende che la guerra era finita, e che il nazismo era stato sconfitto), arriva alla terza tappa del suo calvario: ancora nell’estremo fondo della Russia Orientale, Komsomol, sul fiume Amure (città intestata all’associazione il cui segretario -Kosarev- era stato accopato pochi anni prima: esemplare viluppo toponomastico-nichilistico-dialettico).
Lí accade che il Comandante, “la personificazione delle brutalità e degli orrori del Gulag”, fosse però un maniaco anche di calcio (dire “appassionato”, francamente qui apparirebbe un marchiano fuor d’opera); così Starostin abbozza alla richiesta/comando di allenare la “Dinamo” del campo: ruolo che gli varrà il “privilegio” di vivere “semplicemente” più come “esule” che come “prigioniero politico”: cioè, potrà godere di una “costrizione attenuata”.
Nel 1948, lo chiamano dalla direzione del Gulag e gli dicono che “Stalin” lo vuole al telefono. Non, però, Josif: era Vassilj, il figlio, che, tra una sbronza e l’altra, aveva intrapreso una sorta di guerra personale con Berija. Dopo un giorno, Starostin si trovava a Mosca. Libero. Attingendo all’ineffabile pazienza russa, si disse prudentemente: “L’uomo propone, Dio dispone”. Anzi, a Stalin figlio fece pure presente la clausola del “meno sedici” e che, pertanto, la sua “propiska” (il passaporto) non era valida per Mosca. Problema risolto, ma solo nell’immediato. Berija non intendeva mollare.
Nemmeno il tempo di tornare a casa, sia pure per constatare che gli era stata ridotta a 8 metri quadri (si chiamavano “appartamenti di coabitazione” e vi dimoravano vari nuclei familiari insieme), e ricevette una visita del Kgb: “La sua propiska non è valida, lo sa bene, deve lasciare Mosca entro 24 ore". Direzione Caucaso. Portato sul treno, passate un paio di stazioni, sale un altro passeggero: Starostin vi riconosce un uomo di Vassilij Stalin: “la devo riportare a Mosca”.
In una vicenda nella quale al tragico si accostavano venature di grottesco, in perfetto stile sovietico, era diventato una specie di palla da calcio umana, nella specialissima partita personale fra Stalin Jr e Berija.
Vinse Berija, e Starostin tornó al Gulag, in Kazaksthan, dove rimase fino al 1954. Fanno dodici anni, due più della condanna, meno il breve intervallo del suo “palleggio” fra i due.
Ad Alma Ata, con quel tanto di lenimento, soprattutto spirituale, che potè ancora dargli, lo sport gli venne di nuovo incontro: prima calcio, e poi anche hockey su ghiaccio (da giovane aveva cominciato da lí); se il “Kairat” dominò nell’hockey sovietico gli anni del dopoguerra, molto si dovette al lavoro svolto da Starostin.
Finí che, morto Stalin padre, come sappiamo, Berija fu liquidato, a sua volta. Poi venne Krushev, la riabilitazione e lo Spartak per il resto della vita, fino al 1996, quando si spense.
Starostin, testimoniando l’importanza vasta e potente che il calcio ebbe negli anni di Stalin, e specialmente prima della guerra mondiale, in tempi di purghe e Olodomor ucraino contro i kulaki (“contadini controrivoluzionari capitalisti”), ha osservato:
“Sembrava che le persone separassero il calcio da tutto quanto gli accadeva intorno. Era come un culto intensamente irrazionale, con cui disperati peccatori, in una loro cieca invocazione della divinità, cercavano l’oblio. Per molti il calcio era la sola, talvolta l’ultima, possibilità e speranza di serbare nella loro anima un’isoletta di sincero sentimento e di umane relazioni”.
Ora dovremmo tornare a Diokovic. Per parlare di vaccini-no, di “Libertà”, di “prigionia alla dogana per sette ore” e altre beate corrività: nelle timida speranza di ristabilire un minimo di proporzione, anche lessicale, fra una crepa sul muro e una faglia sismica; fra un Regolamento del nostro Condominio Euroatlantico-certo discutibile come ogni Regolamento, e il Male Radicale, imperante nell’ordine dei secoli e di sterminate e remote moltitudini a cui, prima e, probabilmente, anche dopo il Covid manca e continuerà a mancare tutto (anche i vaccini); fra una contingenza storica sia pure impegnativa, e un’Apocalisse.
Magari un’altra volta.