C’è qualcosa di alieno, nella inflessibile volontà di costruire “lo” Spettacolo Italiano senza spettatori. Nella convinzione che la “supplenza tecnologica”, possa restituire la fisicità dell’essere, il suo colore, il suo calore, e il suo fiato: momentaneamente sacrificati alla causa comune.

La dolorosa legnosità dei due pur volenterosi e “bravi presentatori”, francamente, ne è stato impietoso segno. Certo: si può “fare”. Ma è coltivare una tendenza aberrante. Nel suo significato essenziale di “sviarsi da ciò che è proprio”: per questo, prontamente riconoscibile, familiare. È una forzatura. Come si può “fare” una minestra senza verdure, o una democrazia senza Parlamento, un tribunale popolato da soggetti in effige digitale, così si è potuto “fare” un teatro senza platea. Sicuro.

Ma sono tutte pieghe derogatorie, e di un derogare potenzialmente illimitato: al confine con un feticismo prometeico. E pericoloso, quindi. Forse se ne poteva fare a meno, di “un teatro vuoto, ma come fosse pieno”.

I tribunali non si possono chiudere (almeno, formalmente). Una minestra si può non mangiare,(specie, se senza verdure).
E una “democrazia diretta”, digitale o d’altra specie, è un male in sè, sottratto alla virtù di ogni sua ipotetica graduazione.
Ma un teatro che “non è” un teatro, che non può esserlo per un certo tempo, invece, si può chiudere. Meglio, si può lasciare già chiuso com’è.

Perché da una transitoria, possibile, rinuncia, talvolta sanno venire benefici durevoli. Forse ne avremmo guadagnato, allora, lasciando quest’anno il Festival in pausa: forse ci avrebbe così confermato, con la forza unica del silenzio, che “il modello umano” è quello della partecipazione sensibile alla vita; forse avremmo meglio custodito un attributo prezioso e costitutivo del nostro essere.

Sì, probabilmente, ci avremmo guadagnato. A ripeterci che la libertà è realtà: attiva intelligenza delle passioni non meno che dei concetti; e non una postura inerte, lieta di risolversi, nella cultura come nella politica, in una collettiva allucinazione assistita.
Per il “dopo”. E per ogni tempo.