paolo rossi grande

Paolo Rossi è stato molto più che il simbolo dell'Italia dei Mondiali. È stato, e continua a essere, il simbolo di un'era che non c'è più. Quell’era scandita dalla moviola di Carlo Sassi, dalla calda voce cavernosa e dall'eloquio forbito di Sandro Ciotti. Quella di tutto il calcio minuto per minuto, delle figurine panini che animavano crocchi di fanciulli allegri nei cortili scolastici affollati e delle pallonate che rimbombavano nelle saracinesche di quartieri pieni di vita.

Quella di un calcio e di una società più lenta e gentile. Più intelligente e fantasiosa, meno muscolare e più operosa. Lui che, gracile e timido quasi alla maniera di un freak, tanto si discostava dai campioni di oggi tutti muscoli e tatuaggi, boriosi, sfrontati e palestrati.

Quando Pablito alzava la coppa al cielo, nella magica notte del Bernabeu, correvano gli anni dell’edonismo reaganiano e del liberismo tatcheriano. Il mondo trovava il suo equilibrio all’ombra della bomba nucleare, nella fase finale della guerra fredda. Mentre l’Italia godeva del suo primo governo laico, quello del liberale Spadolini, e cercava di uscire dall’incubo degli anni di piombo inaugurando il suo decennio più felice.

Il decennio della Milano da bere, capitale industriale del paese, della crescita del PIL (nonostante l’elevato debito pubblico) e dei consumi, e di una rivoluzione laica e liberale nei costumi prima della decadenza degli anni Novanta, prodromo dell’antipolitica odierna, iniziata con la stagione cupa del giustizialismo di mani pulite. L’Italian dream era scandito dai successi della nazionale di calcio e dal campionato più bello del mondo, che affollava gli stadi in un rituale domenicale, addolcendo l’hard working della classe operaia in una festa e catarsi collettiva.

Erano gli anni delle radioline giapponesi dalle antenne retrattili che sbucavano dappertutto, dai cassetti e dalle scrivanie degli uffici ai giardini pubblici, gli anni delle cabine telefoniche a gettoni e di una comunicazione e di una socialità più lente ma, forse, più sane, vitali, carnali. I migliori anni della nostra vita, come cantava Renato Zero.

Paolo Rossi, Pablito – anche per via del suo nome, metafora, quasi convenzionale, dell’uomo medio italiano (il signor Rossi appunto) -, è la sineddoche della nostalgia di una stagione che non torna, il simbolo di quel mondo che ci stiamo lasciando alle spalle. Un mondo analogico e concreto, più a misura d'uomo, dove alle debolezze e alle cadute seguivano miracolose resurrezioni.

Un puer aeternus che non smetterà mai di fare sognare quel "fanciullino" che abita il cuore di tanti uomini. Un mito d’oggi, alla maniera di Roland Barthes, in grado di unire gli animi, anche i più diversi, in quella che il sociologo Morin definisce comunità di destino.