conte grande

Il “vadino” non è un errore, più o meno grave e grossolano di Conte. È una radiografia, che certifica una storia interiore. Dell’uomo politico e dell’Italia repubblicana.

Dell’uomo: perché ci sono conoscenze che si rivelano solo nel loro grado di assimilazione: se alto, si presentano e agiscono come atto spontaneo, che rassicura per l’affidabilità così attestata, per il suo padroneggiare proprio quelle cognizioni che simboleggia. Come avviene in una curva abbordata con mano sicura, quando ruote, sterzo e strada paiono comporsi in un accordo perfetto, e ci mostrano che il pilota, bardato com’è di tuta e casco, non millanta. Che realmente “sa” quello che afferma di sapere, per lunga e sperimentata acquisizione: e “ne ha” per sé e per gli altri.

Ma quando un “vadino” esce dalla bocca di un Presidente del Consiglio e professore universitario, ci dice che non assimilazione, non dimestichezza ci sono: ma goffaggini, orecchiamenti, apparenze: tutta una mascherata di gesuitica “semplicità”, messa a profitto multiplo.

E ci dice, soprattutto, che siamo di fronte alla storia interiore della Repubblica. Lo scolaro rimasto con la matita sospesa sul foglio, non sapendo quale fosse la vocale giusta, non ha imparato: ha copiato “la soluzione”, pur non capendo nulla di quello che faceva. Non il figlio di ceto umile, che fruisce della giusta emancipazione conseguita alla conoscenza: ma il maneggione, l’industre e scaltro esperto di travestimenti e di furtivi adattamenti, abile a suscitare pietà quanto a trafugare vocali altrui. Ecco cosa ci dice quel “Vadino”.

Il contrario esatto della magistrale icona disegnata da Paolo Villaggio: che, nella deformità di quel suono, seppe fissare le prepotenze, i diuturni patimenti indotti da mutamenti socio-economici non adeguatamente governati. Il tragico-grottesco dell’uomo-vittima, impietosamente incatenato alla sua gracilità socio-grammaticale, è oggi rovesciato in quello della società-vittima: giunta a subire la debolezza dell’uno arrogantemente spacciata quale (falsa) forza per tutti.

Con la mediazione degli stenti parolai, a quell’altezza socio-storica, ormai impudicamente esibiti dal “proletario” Antonio Di Pietro, e anzi cantati con borghesissima dissolutezza politico-culturale (Giorgio Bocca: “con quel suo italiano ancora pieno di sapori contadini”), possiamo dire che l’ “Avvocato del Popolo” (attributo “naturale” del trentennale e vincente Zeitgeist tribunizio-giudiziario), ha ora virtualmente concluso, sulla scala della decadenza repubblicana, il ciclo platonico Democrazia/Demagogia/Tirannide (ovvero: Lotta/Assalto/Orgia).

Non deve sorprendere, allora, come questo non-strafalcione si ponga parallelo al “congiunto”, riferito a Piersanti Mattarella, e lo invigorisca e lo precisi, prevenendo ogni ruffiana riduzione (di quelle in voga presso i vari “Romanizzatori”, ora Non-Populisti-Per-Il-SÍ).

Allo stesso modo che tale aurorale sciatteria, sciorinata fra le apparenti proteste del Capogruppo PD, Del Rio (“Piersanti, si chiamava Piersanti!”), tradiva un moto profondo di alterità sentimentale e politica verso la Repubblica; così, il “Vadino”, segna la compiuta decadenza dell’idea democratica: non gli ultimi elevati da uno sforzo corale; ma la comunità disconosciuta dai faccendieri dell’inganno emancipativo, della retorica pseudopopolare.

L’impostura socio-culturale del “Vadino”, agganciata alla dissolvenza memoriale del “congiunto”, nega, con questa, le intimità più preziose della Repubblica: il ruolo e le ragioni dei suoi martiri, la morale bontà formativa della sua lingua materna.

“...sdegno
mi fero i mille che tu vedi un tanto
nome usurparsi e portar seco in Pindo
l'immondizia del trivio e l'arroganza
e i vizj lor...”.

“In morte di Carlo Imbonati”, furoreggiava Manzoni. In morte un po’ di tutti, dobbiamo duramente riconoscere noi.