Manfredi ombra cammina

Qualche mese fa sono tornato tra i monti abruzzesi dove sono cresciuto. A un matrimonio ho incontrato l'edicolante del paesino accanto al mio, a cui ho promesso, congedandomi, che sarei tornato presto da lui a comprare il giornale. "L'edicola non c'è più", mi ha risposto. "E cosa fai ora?", gli ho chiesto. "Per ora nulla, vediamo cosa trovo".

Sorride sempre Francesco, poco più di quarant'anni. Non pochi da maneggiare il web come un ragazzo, non abbastanza da non voler più lavorare. Ma cosa può fare con quel chiosco in un paese di 800 abitanti? Lo trasforma in un bar, quando uno già c'è e la popolazione è sempre più anziana?

Aspetta, Francesco, come aspetta la classe media in crisi d'identità, non ancora povera da spingere anche chi non conosce la lingua ad emigrare, scoraggiata da burocrazia, tasse e stagnazione a sperimentare nuove idee.

Aspetta anche Giuseppe, tutte le mattine, il treno per Sulmona. Un'ora di viaggio per 60 chilometri, ma c'è a chi va peggio: da Pescara a Roma ci vogliono più di tre ore. Aspetta che si faccia un investimento ferroviario anche su quelle rotaie costruite negli anni sessanta dell'Ottocento, quando l'Italia era appena nata, e mai elettrificate. Da decenni non cambia nulla su queste tratte, perché di soldi per investire oggi se ne erogano laddove il ritorno economico è sicuro: abbiamo speso troppo in passato. Fatto sta che ormai ci si impiega meno ad andare da Milano a Roma in treno che da Roma a Pescara. Eppure le tasse per Rete Ferroviaria Italiana le paga pure Giuseppe. Qui si genera l’incomprensione: Giuseppe aspetta da anni un servizio al passo coi tempi, come pure chiedono le tante aziende italiane che vogliono esportare i loro prodotti con la Tav o i semplici cittadini europei. Chiedono tutti, alla fine, la stessa cosa: investimenti. Vagoni moderni e calo dei tempi di percorrenza per le aree interne, mercato unico, turismo, ambiente e sicurezza (spostando le merci da gomma a rotaia) per le aziende e i consumatori italiani. Ma qualcuno li mette l’uno contro l’altro, come se i due investimenti non fossero entrambi necessari, e magari andrà a finire che non si investirà né in Italia né per collegare l’Italia all'Europa.

Abbiamo speso troppo in passato, dicevamo, e la sicurezza del posto fisso alle Poste dopo il diploma in ragioneria non c'è più. A Milano, per la sua posizione geografica, la sua cultura del lavoro, la lungimiranza degli amministratori locali, la presenza di infrastrutture non solo stradali o ferroviarie, ma anche delle ultime tecnologie di internet, il Pil cresce e chi si laurea trova lavoro. Il mismatch tra formazione universitaria e domanda di lavoro è colmato dalla cultura aziendale dell'unione che fa la forza: le imprese si mettono insieme per insegnare le nuove professioni digitali a gruppi di neo laureati, poi ognuna seleziona quelli che reputa più adatti. In tante città di provincia, invece, il merito non è premiato. Le possibilità di carriera sono spesso legate allo status famigliare, al partito che ti manda, al sesso. Il paracadute statale è finito, schiacciato dalla crisi del debito. Le spese private frenate, perché quando la benzina passò da 1 a 2 euro al litro, chi non poteva prescindere dall'automobile per andare al lavoro, ha dovuto tagliare da qualche altra parte. Gli investimenti privati sono pressoché bloccati, in attesa di una rinnovata fiducia.

Marta a Milano ci voleva andare, per fare una scuola prestigiosa, di quelle che paghi ma poi lavori. Manco a dirlo in famiglia, troppi soldi avrebbero dovuto pagare tra affitto e retta; ora lavora in un bar tra le montagne abruzzesi, mette i soldi da parte, sogna, prima o poi, di andare via. Invidia chi ha più opportunità di lei, bonariamente.

Qualche mese fa sono anche andato a spasso per L'Aquila. In centro stanno rialzando le saracinesche i primi negozianti, dieci anni dopo, pionieri di una nuova frontiera. Lavorano soprattutto di sabato e domenica, quando si passeggia. Nei giorni feriali, la vita è tutt'intorno alla città, nei quartieri provvisori del post sisma, alcuni dei quali già abbandonati in seguito a crolli di balconi e soffitti. Già, le case costruite per ospitare gli sfollati (realizzate al costo di oltre 2mila euro al metro quadro) "con legno scadente", secondo la Procura di Piacenza. E i negozianti intanto se ne stanno lì sulle porte, accennano un sorriso quando passi e salutano, aspettano il weekend, circondati da gru, ruspe, tavole, betoniere, polvere.

A Campotosto, poi, a 30 chilometri di curve dal capoluogo, sono proprio arrabbiati. Il 18 gennaio del 2017 quattro terremoti di magnitudo superiore al quinto grado hanno buttato giù 8 case su 10, ma i due metri di neve che impedivano alle telecamere di raggiungere il borgo e la concomitanza con la triste tragedia di Rigopiano, ne hanno determinato la scomparsa dai media. L'abbandono si percepisce dalle scritte sui muri: "grazie del nulla", "il cantiere abbandonato". Ma qualcuno ne parla? Un mio amico di scuola, 25 anni, era appena andato a vivere lì con la sua compagna con cui aveva rilevato un’attività di ristorazione sul lago, in cui aveva investito quel che aveva. Persa in pochi secondi. La prima visita istituzionale dell'allora premier Gentiloni c’è stata solo 6 mesi dopo. Non è importante che un'istituzione dedichi due minuti ad ascoltare la sua storia, per mostrargli vicinanza, nel momento di maggiore sconforto?

In questa Italia preoccupata, spaesata e impaurita, il populismo trova terreno fertile. Tra chiusura delle frontiere, nazionalizzazioni, reddito di cittadinanza e riforma delle pensioni, i leader dei due partiti che hanno trionfato un anno fa hanno offerto un freno alla globalizzazione a chi si sente tagliato fuori, un reddito minimo a chi teme di perdere tutto in quelle terre in cui non si investe più, a chi non ha i mezzi economici e culturali per adattarsi alla rivoluzione digitale, a chi si è sentito abbandonato dalle istituzioni nel momento del bisogno. Le istituzioni risultano delegittimate agli occhi di molti cittadini perché lontane dai problemi dei loro territori, e ciò si riflette nel vocabolario semplice e talvolta sboccato adoperato dagli ultimi inquilini di Palazzo Chigi, che hanno imparato a usare il linguaggio del popolo per mostrarsi vicini e hanno offerto due capri espiatori esotici alla crisi identitaria: migranti e istituzioni UE, due realtà poco note a chi non vi abbia mai avuto a che fare direttamente, dunque facilmente mistificabili. Chi per primo ha colto la paura, la frustrazione, l’insicurezza, la rabbia, ha saputo incanalarle verso due deboli, appunto: i migranti perché disperati in cerca di quell'agio di cui la classe media ora teme la perdita e le istituzioni UE perché incomplete e oltre le Alpi.

Nel mio paese l'erba sui marciapiedi supera il metro d'altezza, la fermata dell'autobus è un paletto che non riporta nemmeno gli orari delle corse e i bidoni dell'immondizia spesso strabordano. Eppure le tasse le pagano anche lì. Lo sdegno è legittimo, ma prendersela con chi nei decenni ha sfruttato le municipalizzate come bacini clientelari non è automatico, è più facile dare la colpa ai clandestini.

Riportando benessere economico e sociale, favorendo il merito e le scelte individuali, lo sviluppo di tutti i territori, allora forse si sconfigge anche questa rabbia montante. L'odio, d'altronde, cela sempre un qualche malcontento.

Occorre girare l'Italia, tutta, conoscere le persone e i territori per ripristinare un dialogo, prima che il muro dell'incomprensione si faccia troppo alto.