Uno dei libri che ricordo meglio tra quelli che ho letto nel mio periodo universitario non c’entrava nulla con i testi d’esame che man mano dovevo affrontare. Mi ci imbattei mentre preparavo l’esame del primo anno di Letteratura Greca, e fui fortunato a trovarlo immediatamente disponibile al prestito in una delle tante biblioteche universitarie della Sapienza.

Si intitolava “Omero e Dallas”, era edito da Donzelli ed è ancora oggi un testo formidabile: con uno stile leggero e apparentemente scanzonato l’autrice francese (una serissima ricercatrice) paragonava quello che a molti paludati studiosi sarebbe sembrato imparagonabile, cioè la serialità narrativa dell’epica orale greca e quella contemporanea delle serie drammatiche televisive. Avvicinando il prototipo della narrazione occidentale e quella che era stata “la serie” per eccellenza, i parallelismi tra alcuni meccaniche del racconto sorgevano con una naturalezza e una freschezza incredibili, con qualche memorabile digressione (come quella che avvicinava la tauromachia cretese e la corrida spagnola, rappresentazioni culturali e attoriali della lotta cosmica tra l’ordine e il caos, il cui esito non è mai scontato).

Al cuore del libro stava la tesi che in fondo nulla era veramente cambiato da quando gli uomini si raccoglievano intorno a un aedo per ascoltare, di nuovo seppur con qualche variazione, la storia che già conoscevano a memoria, a quando le famiglie dell’Occidente si sedevano davanti alla televisione per ritrovare a ogni puntata, negli intrighi e nelle fortune, nei colpi di scena e nell’abbagliante scintillio degli orpelli consumistici, la solita tragedia di ogni famiglia di successo.

Molti di coloro che oggi seguono con interesse le nuove uscite seriali non hanno visto Dallas per motivi anagrafici (incluso chi scrive): ma è una serie che segnò il suo tempo, con i petrolieri texani che simboleggiavano il trionfo a stelle e strisce sul resto del mondo (la fine di quel mondo avvenne con l’arrivo della minaccia giapponese di un sorpasso economico, poi in realtà mai avvenuto). Diversi spettatori, sempre incluso chi scrive, non hanno fatto in tempo a interrogarsi nemmeno su chi avesse ucciso Laura Palmer nella prima serie che dopo Dallas tenne incollati al televisore milioni di adulti, morbosamente incuriositi dalle avventure di Twin Peaks, una sonnolenta cittadina della provincia americana: fu un fenomeno di costume intenso, rispetto alla lunga serialità di Dallas, frutto di un’epoca che cominciava a intuire come il marcio non sarebbe rimasto schiacciato a lungo dal crollo del muro di Berlino, perché era dentro di noi. Gli anni Novanta videro però soprattutto il trionfo delle sitcom come Friends e dei teen dramas come Beverly Hills 90210 e Dawson’s Creek: “la fine della storia” di Fukuyama segnò anche la fine delle storie, e il disimpegno di una larga parte della mia generazione è stato il regalo avvelenato dell’aver creduto a quella narrazione trionfale. Nulla più doveva compiersi: il futuro era roseo, il privato poteva occupare tutto lo spazio perché il pubblico avrebbe marciato in perfetta e armoniosa autonomia.

Mentre Tony, il protagonista dei Sopranos, cercava di bilanciare in qualche modo le sue difficoltà private e il suo ruolo pubblico di boss della mafia, furono gli aerei del World Trade Center e la litania (rabbiosa o allegra, ma comunque spezzata a Genova) di chi credeva che un altro mondo fosse possibile a risvegliarci bruscamente. E fu in quel momento che arrivò Lost: come loro, anche noi eravamo naufraghi, sopravvissuti miracolati e incerti del futuro, alla ricerca di una guida che compisse l’impossibile sfida di rassicurarci, guidarci, dare un senso alla mostruosità intorno a noi. Mentre la morte di Daniel Pearl inaugurava una stagione infinita di orrori ben peggiori del fumo nero dell’isola, cercammo inconsapevolmente rifugio in una storia indecifrabile anche nelle scelte temporali del proprio racconto. Finì nell’unico modo possibile, mentre il mondo cominciava o ricominciava la lunga era delle crisi internazionali (finanziarie, economiche, terroristiche, ambientali): senza una risposta credibile.

E fu in quel momento che comparve Game of Thrones ((e poco dopo House of Cards). Anche questa volta, per gli spettatori più attenti a quello che stava intorno alla televisione, l’aria dei tempi si leggeva con chiarezza: un mondo buio, di tradimenti, disonore, violenza e regni (o partiti politici) in lotta tra loro, in un continuo scacco di tutti contro tutti, in cui l’unica possibilità era quella dell’annientamento dell’altro. Con la violenza se possibile, o con l’ingegno, se proprio necessario. Nessun grande enigma da scoprire: solo azione e reazione, e tanta politica svelata con una brutale chiarezza che non si vedeva dai tempi de “Il Principe”; con chi governa sullo schermo che, proprio come insegnava Machiavelli, è in grado di farsi “volpe” o “leone” a seconda delle circostanze e delle occasioni. Entrambe le serie sono finite in questa stagione: finali che spesso hanno deluso, amareggiato o addirittura fatto infuriare gli appassionati, perché non all’altezza del grande lavoro svolto dagli sceneggiatori e dai registi delle stagioni precedenti.

Ma, e in questo credo stia la lezione da trarre da questa breve e volutamente parziale storia degli ultimi 40 anni di serialità televisiva, non possiamo e non dobbiamo aspettarci forse nient’altro che questo: una bella storia, lunga e appassionante, cui partecipare con trasporto. In fondo nemmeno le nostre vite si definiscono nel momento del commiato, generalmente: è la somma dei momenti che abbiamo vissuto e costruito nel corso del tempo a decretare cosa resterà di noi nella memoria di chi lasciamo, molto più che la capacità di dire qualche frase a effetto prima di esalare l’ultimo respiro. Ma a volte il modo in cui si affronta la fine dice molto dei nostri valori, di quello che siamo ben oltre quel che abbiamo dimostrato fino a quel momento; ed è anche per questo che da questa analisi sono state espunte molte serie di successo dei nostri giorni, il cui unico compito, per ora, è tenerci avvinti: quando ci saluteranno per l’ultima volta, forse retrospettivamente potremo inquadrarle in un filone e in un’epoca e capire cosa ci hanno rivelato di noi stessi, dei nostri desideri e delle nostre paure*.

Allargando allora lo sguardo dalle nostre vita alle nostre comunità, mi pare di poter dire che tra Omero e Dallas ci sia una distanza culturale tra i destinatari di gran lunga minore rispetto a quella che esiste tra il pubblico di Dallas e quello di Game of Thrones. Non solo perché è cambiato il momento della fruizione, che oggi avviene senza la ritualità universale del palinsesto televisivo valido per l’intera comunità: oggi ognuno di noi può vedere in qualsiasi momento e in molte forme lo stesso spettacolo, anche durante un viaggio in treno o nella pausa pranzo al lavoro (pensateci bene: la possibilità di beccarsi uno spoiler è aumentata esponenzialmente non con l’arrivo di Internet ma con la diffusione delle visioni on-demand, per cui non sai mai se quello che dirai sarà o meno uno spoiler per la persona con cui stai parlando). Il vero discrimine è che fino a Dallas era la ripetizione dello schema a essere cercata dallo spettatore, pur tra mille variazioni e qualche colpo di scena; come nelle fiabe analizzate da Vladimir Propp, gli elementi essenziali erano sempre quelli, parlavano di una società immutabile nei suoi elementi costitutivi e nei suoi ruoli: un protagonista, un antagonista, una sfida, uno strumento magico, il finale chiaro e moraleggiante, questo cercavano gli spettatori e questo preparavano per loro gli autori.

Ma le serie televisive della nostra epoca non sono più così e non potranno più esserlo: se l’Urlo di Munch rappresentava lo sconcerto dell’uomo di fronte alla modernità che chiudeva l’Ottocento, le stagioni finali di Game of Thrones e House of Cards sono l’impossibile tentativo dell’homo socialis contemporaneo di trovare una speranza politica di salvezza complessiva, all’altezza delle attese altissime che accompagnano quella ricerca. Nessun uomo politico verrà a salvarci; che si chiami Berlusconi, Obama, Renzi, Trump o Salvini, non può farlo semplicemente perché forse non riuscirà a salvare nemmeno se stesso: nella lotta totale che lo vede protagonista deve pensare alla propria sopravvivenza, e il leitmotiv degli ultimi vent’anni di politica sembra essere un rilancio continuo di speranze e promesse fino alla delusione finale (dei propri seguaci in primis).

E come potrebbe essere diversamente, se la politica ha perso il controllo del mondo che vorrebbe governare? Se l’arte di governo oggi è solo procrastinare il redde rationem, dovremmo cominciare ad accettare storie con finali insensati senza lamentarcene: sono lo specchio del mondo in cui viviamo, prima ne prendiamo atto e prima potremo cominciare a pensare una via d’uscita percorribile. Tutti insieme, dal piccolo del nostro Comune alla vastità dell’Europa, consapevoli che c’è una notte “dark, and full of terrors” davanti a noi, ma che valga comunque la pena provare ad attraversarla.

* Intuisco l’obiezione di molti lettori affezionati a serie concluse e comunque non citate, da Breaking Bad a Dexter, da The Big Bang Theory a Doctor House. Se il gioco alla base di questo articolo vi affascina, sta a voi trovare parallelismi, rimandi e suggestioni intelligenti: è un lavoro potenzialmente infinito.