Mutazione antropologica e linguaggi della politica
Terza pagina
Luciano Floridi, professore ad Oxford di filosofia ed etica dell’informazione, ha rilasciato due settimane fa, al Domusforum di Milano su “Il futuro delle città”, una intervista sul seguente argomento: “L’intelligenza artificiale è un matrimonio tra uomini e macchine, o piuttosto un divorzio”.
Sarebbe infatti un errore, dice esplicitamente Floridi, concepire l’A.I. come “un matrimonio tra intelligenza biologica, per esempio l’intelligenza umana, e capacità delle macchine di fare qualcosa per noi”. Piuttosto, è vero il contrario: l’intelligenza artificiale è il divorzio tra “l’abilità di fare qualcosa, di svolgere compiti in vista di un particolare obiettivo, con successo, e il bisogno di essere intelligenti”. La sua tesi si può sviluppare così, con le sue stesse parole: “La maggior parte dei problemi che abbiamo oggi non sono dovuti al fatto che stiamo creando macchine intelligenti – se fosse così dormirei molto bene – ma che le macchine che abbiamo non sono intelligenti e tuttavia sono in grado di fare cose al posto nostro, meglio di noi … se le si usa per prendere decisioni … le loro applicazioni possono essere molto pericolose”.
In un suo testo del 2014, pubblicato l’anno scorso da Raffaello Cortina, dal titolo “La quarta rivoluzione. Come l’infosfera può trasformare il mondo”, nell’incipit del libro Floridi scrive: “Questo libro riguarda l’effetto che le ICT digitali (le tecnologie dell’informazione e della comunicazione) stanno producendo sul nostro senso del sé, la maniera in cui ci relazioniamo gli uni con gli altri e nella quale diamo forma al nostro mondo e interagiamo con esso … Come il lettore potrà constatare … siamo al principio di una profonda rivoluzione culturale”. A queste parole fa seguire un interrogativo che rinvia a quel “divorzio” prospettato nella recentissima intervista milanese: “Queste tecnologie ci renderanno più potenti e abili o, al contrario, ci costringeranno entro spazi fisici e concettuali più limitati, obbligandoci silenziosamente a adattarci a loro, dal momento che questo sarà il modo migliore, e talvolta il solo modo, di far funzionare le cose … Fenomeni complessi possono essere resi concettualmente più semplici, ma c’è un limite oltre il quale la semplificazione diviene una distorsione inaffidabile e pertanto inutile”.
Ho ritenuto di evidenziare quei passaggi del testo che andranno a conforto delle notazioni che farò di qui a poco; ora, invece, voglio introdurre un’altra breve citazione che sviluppa il profilo socio-esistenziale del testo di Floridi. La traggo da un libro nato nel 2010 in edizione inglese, tradotto in tedesco nel 2013-‘14 e presentato da Einaudi nel 2015, dal titolo “Accelerazione e alienazione: per una teoria critica del tempo nella tarda modernità”. L’autore è un sociologo dell’Università di Jena, Hartmurt Rosa. A parte il tema dell’ “accelerazione”, che ha un sapore futurista (“Il Primo Manifesto del Futurismo” di Marinetti, 1909), e che meglio sarebbe stato declinare come a-temporalità, vale la pena riportarne alcune frasi: “… il regime di accelerazione della modernità trasforma, spesso alla spalle dei propri attori, il rapporto dell’uomo con il mondo, ossia con gli altri e con la società (il mondo sociale), con lo spazio e il tempo, con la natura e il mondo degli oggetti inanimati (il mondo oggettivo); infine l’accelerazione muta le forme della soggettività umana (il mondo soggettivo) e anche il nostro essere al mondo”.
Alle notazioni che ho riferito, occorre aggiungere che vi sono studiosi dell’Università di Cambridge che hanno rilevato una riduzione di “capacità cognitive” per l’attuale uomo occidentale, il cui sviluppo e affermazione si ebbe proprio nel Rinascimento italiano.
Il contesto che ho prospettato mostra l’incidenza delle tecnologie comunicative sul modo di funzionare della testa delle persone e le conseguenze sulla costituzione sia dei rapporti personali, sia di quelli sociali. Ve ne è abbastanza, allora, per capire che questo sapere non è solo una questione per “addetti ai lavori”, ma occorre averne una diffusa conoscenza e divulgazione, poiché tratta di un meccanismo che incide, come ho detto, sull’agire mentale e pratico dell’uomo della strada, il quale ne è del tutto inconsapevole.
È un sapere, quindi, che si riferisce alla possibilità stessa di una comprensione, che possa essere ancora “critica”, dei fenomeni sociali; in particolare di quello che si concretizza nella concezione della politica e nel suo praticarla come attori e insieme destinatari. Tanto più se si pensa che una tale coniugazione di attori e destinatari è stata possibile in virtù proprio di un processo di divulgazione delle sue categorie e diffusione pratica dei processi decisionali, realizzate dalle democrazie rappresentative del secondo ‘900, attraverso la cultura dei partiti e la partecipazione popolare per mezzo del suffragio universale.
Una presenza, quella dei partiti, decisiva per divulgare una cultura della politica e, quindi, rendere comprensibili nei loro effetti pratici le categorie con le quali si è costruito il pensiero politico che è giunto fino a noi dalle sue origini, nella “Modernità”; categorie come sovranità, legittimazione, rappresentatività, stato di diritto e, ancora, competenza, divisione dei poteri, responsabilità, ecc. Ma soprattutto, la funzione dei partiti è stata quella di elaborare, pur in ottiche diverse secondo le diverse visioni del mondo, la mediazione delle esigenze del micro-mondo di ciascuno di noi, cioè dell’uomo della strada, con le possibilità offerte dal macro-mondo rappresentato dal rapporto tra il fine della politica e le “leggi” (peraltro frutto di convenzioni) dell’economia. E questo, sia a livello interno che internazionale e, oggi anche, sovranazionale.
Tale rapporto, tanto complesso da essere di difficile semplificazione (qui torna la notazione di Floridi sulle pratiche di semplificazione distorsive), ha, da sempre, chiamato in causa, e oggi più che mai, alcuni concetti-chiave costruiti dal pensiero “moderno”: libertà, giustizia, uguaglianza, che tradotti in termini esistenziali, suonano “io – tu – noi – tutti”. Categorie e concetti, sui quali si è costruito quel mondo che, con guerre e tribolazioni, è giunto fino a noi e che ha consentito, alle generazioni del secondo dopoguerra, di vivere una lunga stagione di pace in Europa, nella terra cioè delle democrazie costituzionali e rappresentative.
Se ci si sofferma un solo secondo su tutto quanto ho rappresentato nelle righe precedenti, dall’io, al noi, all’uomo della strada, dalla politica all’economia, dalla libertà, alla giustizia, alla uguaglianza, ci si accorge che gli effetti pratici, individuali o generali, privati o pubblici, derivano da costrutti mentali, “categorie” e “concetti” appunto, che si concretizzano e operano attraverso la diffusione di parole. Più in generale, la vita di ciascuno di noi è costruita praticamente per mezzo delle parole (si fanno cose con parole) che, messe in comune, divengono “linguaggi”: danno vita, cioè, alla comunicazione, con il suo strumentario tecnologico.
In altre parole, le rappresentazioni linguistiche, i linguaggi, modellano la vita umana nelle sue declinazioni umane e sociali, dall’egoismo all’altruismo, dall’amore al rispetto alla competizione, dalla tolleranza al dogmatismo al fondamentalismo. E gli strumenti di cui si serve il linguaggio incidono sulla rappresentazione del mondo che comunicano. Basti pensare quale diversa rappresentazione del mondo umano avvenne quando dalla tradizione orale si passò alla scrittura; basti pensare a quale incisività sulla obbedienza religiosa di una umanità analfabeta ebbero, nel Medioevo cristiano, l’iconografia che affrescava per intero le Cattedrali e le figure terrifiche dei capitelli; basti pensare quanto incise sulla diffusione dei testi l’invenzione della stampa ed il suo sviluppo. Ho fatto solo esempi sparsi, senza alcuna completezza evidentemente, ma solo per arrivare rapidamente alla contemporaneità: all’epoca delle tecnologie digitali (ICT) ed all’uso di massa che esse consentono, provocano ed inducono.
L’interrogativo che si apre, a partire dalla interazione tra gli attuali modelli comunicativi, determinati dalle tecnologie digitali, e la risposta del cittadino che partecipa alla politica attraverso diversi processi deliberativi, è il seguente: quale è l’effettivo grado di comprensione della complessità delle questioni poste sul tappeto della politica interna, sovranazionale ed internazionale, da parte dell’elettore-medio? Per analizzare la risposta occorre vedere il modello comunicativo adottato dai protagonisti dell’agire politico, poiché è quest’ultimo che allestisce la rappresentazione del mondo sulla quale il cittadino è chiamato a pronunciarsi e a determinare il contenuto della decisione. È, infatti, su questo punto che si gioca la qualità sostanziale del processo di legittimazione politica, così spesso invocato da tutti i governanti.
Faccio un esempio di casa nostra, per farmi capire. Se il Ministro dell’Interno interviene sulla relazione del Presidente dell’INPS, condensando la sua critica nella battuta: “se vuol fare politica, allora si candidi”, mette in atto un modello comunicativo linguisticamente breve ed incisivo, poiché stimola con immediatezza (la famosa “pancia”) il desiderio di ciascuno di dire la sua, con il voto, intorno alle questioni di governo, ma su di una base comunicativa del tutto scorretta sia dal punto di vista delle competenze istituzionali sia da quello, metodologico, del confronto tecnico-scientifico. Sul piano delle competenze istituzionali, poiché la materia del bilancio INPS non appartiene all’ambito di competenza di un Ministro dell’interno, né vale la qualifica di Vicepresidente del Consiglio, data la specificità economico-finanziaria dell’oggetto; sul piano del confronto tecnico, perché il dissenso deve essere rappresentato avvalendosi del medesimo strumento scientifico: rilevazioni statistiche si confutano con altre e differenti rilevazioni, un modello numerico si confuta con un altro modello numerico. L’ “…allora si candidi” semplifica a tal punto la controversia da travisarne il significato autentico, spostandolo dal campo che gli è proprio, uno specifico settore della politica economica, ad un più generale ambito di potere politico fondato su di una investitura originaria, fatta valere in modo così fondante da trascendere le specifiche competenze istituzionali.
Altro esempio è l’uso del termine “sovranismo”, che richiama la questione della sovranità dello Stato-nazione, con la sua storia “moderna” ricchissima di pensiero e di eventi ora tragici ora pacifici da questo prodotti. Ma nel termine “sovranismo” questa ricchezza, la cui comprensione sarebbe necessaria proprio al fine di svolgere una fondata riflessione critica sulla realtà odierna dei processi di governo sovranazionali, viene livellata in un generico ribellismo verso istituzioni sovranazionali. È un esempio, tra i tanti e quotidiani, di quel fenomeno distorsivo proprio della comunicazione prodotta dalle tecnologie digitali (ICT) che, incidendo sulla testa della gente, dis-allenano il cervello alla riflessione per abituarlo a pratiche eminentemente reattive (come le neuroscienze dimostrano). La conseguenza è sul senso effettivo, dal punto di vista di uno Stato di diritto, che, in questa situazione di fatto, assume la “legittimazione politica”, la quale, determinata da un linguaggio impressionistico, avrebbe ora la sua fonte in una sorta di analfabetismo politico, che il ‘900 aveva in gran parte sconfitto, almeno qui in Europa.
L’interrogativo che pongo in coerenza con queste osservazioni è il seguente: il personale politico attuale (non solo nostrano si badi!) è anch’esso vittima dell’analfabetismo politico prodotto dal diffondersi delle ICT, oppure le usa per semplificare i processi di legittimazione giocando sull’analfabetismo della gente comune (vedi il Presidente degli U.S.A.)? Il problema è assai serio, poiché un analfabetismo politico, originario o strumentale che sia, discredita a tal punto la politica da renderla poi impotente, per esempio, nella nel contrastare le valutazioni delle agenzie di rating, che si basano su quella "intelligenza", che è propria degli algoritmi. Forse vale la pena di ricordare di nuovo le parole di Floridi: “Fenomeni complessi possono essere resi concettualmente più semplici, ma c’è un limite oltre il quale la semplificazione diviene una distorsione inaffidabile e pertanto inutile”.