sulla mia pelle grande

"Sulla mia pelle", il film di Alessio Cremonini uscito ieri in contemporanea su Netflix e nelle sale, non beatifica Stefano Cucchi né criminalizza le forze dell'ordine: una lettura anarchico-sessantottina o, specularmente, poliziesca-militarista della vicenda ("era solo un tossicodipendente…" ha commentato qualcuno) ne banalizzano la tragicità e il significato politico-giuridico, che ben poco ha a che fare con le strumentali interpretazioni per l'appunto antiautoritarie o con le controinterpretazioni "salviniane" e cripto-fasciste che in parecchi ne stanno facendo.

Da un lato c'è infatti la mentalità vittimista e autoassolutoria delle forze dell'ordine e dei suoi sindacati – sul piede di guerra sin da prima che uscisse il film –, che individuano campagne di delegittimazione nella trasposizione cinematografica/televisiva di qualunque sommossa soffocata coi manganelli o episodio di abuso d'autorità conclusosi tragicamente ("Diaz - Don't Clean Up This Blood", il film che racconta anch'esso assai crudamente il pestaggio subito dai no-global a Genova, venne accolto con altrettante polemiche); il sacrosanto interesse a, per così dire, limitare i danni d'immagine non può degenerare nella difesa a oltranza e nella pretesa d'impunità dei "colleghi che sbagliano" – eco dei "compagni che sbagliano": questo certifica come l'appartenenza/militanza radicalizzatasi in tribalismo possa annegare lo spirito critico dell'individuo qualunque sia "l'ideologia di gruppo".

Può capitare che il singolo agente "politicizzi" e assolutizzi il suo ruolo e cominci a individuare nella repressione la soluzione della di qualunque patologia sociale ("Chillo è sulu nu drugatu e' merda" pare abbia detto all'ex moglie uno dei carabinieri presunti responsabili del pestaggio di Cucchi, sentendosi evidentemente investito di una funzione purificatrice-moralizzatrice della società, al di sopra dello stato di diritto e di qualunque "scientismo positivista").

Dall'altro lato c'è tutta la subcultura per così dire antiautoritaria dedita a tempo pieno alla criminalizzazione delle forze di polizia in quanto tali: il caso Cucchi e tutti gli episodi affini diventano allora la prova inequivocabile della natura intimamente criminale delle stesse, "legalizzate" e istituzionalizzate ma non per questo meno illegittime. In quest'ottica, il titolo di martire anarchico o libertario viene concesso troppo generosamente (la controretorica del poliziotto-eroe che rischia la vita a fronte di uno stipendio tutt'altro che lauto è senz'altro più fondata).

Si tratta, si diceva, di due visioni grossolanamente strumentali e ideologiche e, se si vuole, parimenti antiliberali: l'una disconosce lo stato di diritto e nello specifico il diritto di habeas corpus, il complesso di garanzie a salvaguardia della libertà individuale contro l'azione arbitraria dello Stato; l'altra disconosce lo Stato stesso quale monopolista della forza legittima, per dirla con Max Weber.

Oggi che il mood antigarantista va per la maggiore – "non possiamo aspettare i tempi della giustizia penale" diceva pochi giorni fa il Presidente del Consiglio in carica – e che il cittadino-utente, versione digitalizzata dell'uomo-massa, invoca con la bava alla bocca una giustizia instant ed esemplare, la trasposizione cinematografica del caso Cucchi può servire a "de-emotivizzare" la domanda di sicurezza e rilegittimare l'impianto giusnaturalista del nostro ordinamento giuridico. È possibile che ciascuno di noi sia insensibile alle garanzie a tutela di un presunto innocente o di un reo finché non prova le conseguenze della sospensione illegale dei diritti umani "sulla propria pelle"?