Ovadia Hitler 

Il 15 giugno, sul sito del Fatto Quotidiano, sono apparse le divagazioni di un uomo convinto che la legge sulla cittadinanza in discussione al senato sia un complotto del “capitale finanziario” (sic.) volto ad erodere e distruggere il concetto di cittadinanza. Lo spiega con queste parole:

“Il capitale finanziario ha oggi come propria norma di sviluppo la destabilizzazione dello stabile, la precarizzazione del solido, lo sradicamento del radicato. Non vuole lavoratori tutelati, ma precari. Non vuole cittadini, ma migranti apolidi con erranza globale coatta.”

Radici, territorio, identità. Non manca nulla. È lo starter pack dell’intellettuale della destra sociale. Il lettore, prima di verificare chi sia l’autore dell’articolo, potrebbe credere che porti la firma di un Massimo Fini. Al limite, potrebbe sembrare la traduzione di qualche scritto di un Serge Latouche, se non di un esponente della Nouvelle Droite, come un Alain de Benoist. Invece, l’esercizio barocco in questione, dal lessico comicamente vendoliano, è opera di Diego Fusaro - di mestiere non semplicemente filosofo, ma filosofo marxista.

Del personaggio Diego Fusaro si discute già abbastanza, con il solo risultato di regalare spazi pubblicitari ad una macchietta che si nutre di sovraesposizione mediatica. Allo stesso modo, le diatribe sullo ius soli animano già a sufficienza il dibattito pubblico. Semmai, quel che suscita interesse (e scalpore) nell’articolo del materialista storico da aperitivo, è la natura delle sue argomentazioni.

Fusaro, infatti, è solo l’espressione italiana più squisitamente pop e mediaticamente in vista di una generazione di intellettuali che si rifanno interamente a Rousseau, autentico pioniere del pensiero rossobruno e - nemmeno troppo velatamente - alla dottrina nazimaoista, a dimostrare quanto sbiadito sia diventato il confine tra il comunismo e il comunitarismo tanto caro alla tradizione della destra sociale.

Si tratta dei figli più legittimi della postmodernità, intesa come epoca del collage confuso e irrazionale di tutte le idee portanti del Novecento: una volta tramontate quelle che Lyotard definiva le “grandi narrazioni” e le ideologie dello scorso secolo, non rimane che trattare le categorie del pensiero occidentale come giocattoli, che Baudrillard definiva “simulacri” della cultura pop - come possono essere, allo stesso modo, una t-shirt di Marylin Monroe o di Che Guevara - privi di valore e di senso: “verità che nascondono il fatto che non ne hanno alcuna”, per citare di nuovo il filosofo francese. Si noti, infatti, come Fusaro non si preoccupi minimamente di spiegare, terminata l’omelia filosofica, quale soluzione adotterebbe: se manterrebbe inalterata la norma attuale, se tempererebbe ulteriormente lo ius soli rispetto a come è stato proposto, se precluderebbe del tutto la possibilità per gli stranieri di diventare italiani, in nome di quelle radici di cui tesse le lodi. A calarsi nella realtà ci si sporca le mani. È più comodo rimanere vaghi.

È in questo contesto grottesco, che trova nel nonsense la sua cifra costitutiva, che riesce ad accreditarsi come filosofo marxista - che, per sua natura, dovrebbe essere internazionalista - un divulgatore di luoghi comuni pronto a difendere la posizione di chi concepisce, ancora oggi, la cittadinanza come una questione di sangue.

Quelle di Fusaro, così come quelle di tanti altri presunti pensatori contemporanei, sono parole vuote e in libertà, stese con un generatore automatico, proprie di un dadaismo filosofico in cui la forma ha fagocitato il contenuto e dove bastano alcune parole chiave ricorrenti - capitale, diritti, lavoro, radici, migranti, consumo, decrescita, pensiero unico - per imbastire enunciati privi di significato, volti a prendere in giro spudoratamente il lettore.

Il dramma è che, se un tempo queste assurde commistioni di estremismi venivano considerate “la voce della fogna”, sembrano ora diventate parte della filosofia mainstream, da salotto televisivo della domenica. Basta tuonare contro i presunti complotti del capitalismo, attribuire le origini di ogni male alla modernità e alla società aperta per avere voce in capitolo, a prescindere della qualità e della coerenza delle proprie argomentazioni.

Si tratta di una moda intellettuale da ombrellone, ma pur sempre estremamente pericolosa, che somiglia spaventosamente a quella che, nella Germania di Weimar, portò Hitler al potere, attribuendo la colpa della crisi in cui versava il paese al “grande capitale finanziario”, incarnato, nella propaganda nazista, dai cittadini di religione ebraica.

Fusaro, da abile venditore, ha capito che le parole hanno un impatto emotivo perfino più potente dei concetti stessi. Un paese che abbocca a certe squallide finzioni, però, ha qualcosa di cui preoccuparsi.