Totti saluta

‘È stata la decisione più difficile per me e per la mia famiglia, ma ho sempre pensato di andare via nei tempi e nei modi giusti, e adesso è il momento’. Sono le parole di addio di un grande calciatore alla propria squadra, ma non sono di Francesco Totti.

Sono tratte dalla lettera con cui il trentasettenne John Terry, lo scorso 19 aprile, ha comunicato il proprio congedo dal Chelsea, dopo ventidue anni di onorato servizio, di cui circa tredici con la fascia dei Blues al braccio. Nel discorso che il capitano giallorosso ha tenuto di fronte ai settantamila dell’Olimpico, al contrario, non v’è alcuna traccia di una maturazione o di una presa di coscienza dello scorrere inesorabile del tempo.

Non mancano alcuni riferimenti di circostanza ad un passaggio dall’infanzia all’età adulta, certo, ma giunto al momento dei saluti – quelli definitivi – Totti non fa altro che ricordare al suo popolo adorante che quella di appendere gli scarpini al chiodo non è stata una sua scelta, ma una decisione societaria che vive come una grande ingiustizia: “…a un certo punto della vita si diventa grandi. Così mi hanno detto e il tempo ha deciso. Maledetto tempo...”, “…mi sono chiesto in questi mesi perché mi stiano svegliando da questo sogno”, e ancora: “non sono pronto a dire basta e forse non lo sarò mai”.

Risultano particolarmente significativi, soprattutto, i passaggi delle lettere in cui i due capitani prendono atto del profondo legame che li lega alle rispettive tifoserie, tuttavia con una differenza sostanziale: “spero solo di essere stato in grado di ripagarvi con il mio impegno e la fedeltà durante tutta la mia carriera”, scrive Terry; “stavolta sono io ad aver bisogno di voi e del vostro calore”, confessa Totti.

Da una parte, l’immensa riconoscenza del capitano dei Blues nei confronti del pubblico che lo ha reso grande; quella di chi, dopo ventidue anni, vive ancora nel dubbio di non aver dato alla propria gente più di quanto abbia ricevuto. Dall’altra, un líder máximo che invoca il sostegno del popolo per aiutarlo a risolvere un suo problema personale, causato, soprattutto, dalla propria incapacità di accettare il naturale scorrere del tempo. Al di là dell’empatia che la circostanza naturalmente suscita, si tratta dell’atteggiamento di un capopopolo che, convinto di essersi guadagnato l’amore incondizionato della propria gente, si serve di tale adorazione come strumento di ritorsione nei confronti di quelli che percepisce come i propri nemici, che lo avrebbero costretto, nella sua mente, a smettere di giocare a calcio: la società, la dirigenza, l’allenatore.

Mentre, in occasione dell’ultima partita del capitano londinese con la maglia dei Blues, il pubblico di Stanford Bridge in visibilio ha acclamato il beniamino John Terry, l’allenatore Antonio Conte e il presidente Roman Abramovič con tutta la dirigenza, a Roma, nel pieno delle celebrazioni per il pensionamento calcistico di Totti, l’unico a ricevere il tributo del pubblico è stato il capitano giallorosso, mentre al presidente e all’allenatore che hanno lavorato per garantire alla squadra il secondo posto in campionato (valevole l’accesso diretto alla prossima Champions League ed introiti per circa 50 milioni di euro) è stata riservata soltanto un’ignominiosa e surreale bordata di fischi.

In molti diranno che è facile, per i tifosi, acclamare una società ricca e vincente e, per un calciatore, congedarsi da capitano del club neolaureato campione d’Inghilterra. Non occorre fischiare, dove tutto va per il verso giusto. Tutto ciò è innegabile, ma di rado si pone la dovuta attenzione sulle ragioni profonde che determinano le fortune di un club e le disfatte di un altro. Troppo spesso ci autoconvinciamo che il denaro delle migliori società d’Europa cresca sull’albero della cuccagna, che l’approdo di petrolieri russi (si veda, appunto, Abramovič) e sceicchi arabi sia una sorta di manna che scende dal cielo per benedire squadre e tifoserie baciate dalla dea Fortuna. Persino chi dispone, presumibilmente, di budget virtualmente illimitati e rileva la proprietà di un club di calcio per hobby – accusa spesso rivolta agli sceicchi del Manchester City e del Paris Saint-Germain – investe dove ravvede possibilità di crescita e vittoria.

C’è una ragione per cui la Roma di Totti non riesce a vincere nulla da ben dieci anni. Fino a qualche tempo fa, si credeva che l’unico tassello mancante fosse quello di una proprietà con grandi capacità di spesa. Arrivato James Pallotta, con investimenti importanti e il progetto del nuovo stadio, sembrava che il cerchio si fosse chiuso. Eppure, dopo i primi sei anni di gestione americana, a Trigoria si contano gli stessi – pochi – trofei di un decennio fa. Non vi sono più alibi e, di spiegazione plausibile, ne resta soltanto una: lo sport è impresa, e fare impresa a Roma è impossibile. Per ragioni politiche, si dirà. Senz’altro, ma, alla radice di tali ragioni, anzitutto, vi è il dramma di una cultura popolare incapace di guardare oltre le mura e i miti cittadini.

Non è un caso se lo stesso Pallotta, dopo essere stato sommerso dai fischi dell’Olimpico, ha prontamente ed esplicitamente comunicato – per la prima volta da quando è nella Capitale – la sua intenzione di cedere la proprietà della Roma nel caso in cui il nuovo stadio non venisse ultimato entro il 2020.

Dopo Sky – fresca di trasloco a Milano, tra esuberi e trasferimenti – e il call center Almaviva, con 1.600 licenziamenti, un altro grande imprenditore sarebbe dunque pronto a lasciare la capitale per l’impossibilità di fare impresa. Certo, l’A.S Roma, in quanto società, non andrebbe da nessuna parte, ma i capitali necessari alla crescita calcistica del club volerebbero via; magari in Spagna, per esempio, dove il sistema calcio, soprattutto sotto l’aspetto manageriale, è il fiore all’occhiello del paese.

Digital divide con le grandi città del Nord, trasporti pubblici da incubo, totale assenza di progettualità da parte del Campidoglio, corruzione, burocrazia sovietica, parentopoli, municipalizzate con voragini di bilancio, aliquote delle addizionali locali più alte che nel resto del paese. Imputare la colpa di tali disgrazie alle amministrazioni che si sono susseguite alla guida della Capitale è la sport preferito di chi, come i pentastellati, giunge alla guida del Comune sull’onda dell’indignazione e del malcontento, salvo poi continuare ad affondare la città nell’immobilismo e, novità degli ultimi anni, nella spazzatura.

Forse domenica sera, dopo aver ricevuto i fischi a dir poco ingenerosi dell’Olimpico ed essersi infuriato per le stupide illazioni del tifo romanista, James Pallotta ha avuto un’epifania: ha realizzato che le ragioni per cui non si riesce nemmeno a costruire un benedetto stadio di proprietà in una delle città più visitate al mondo, in fondo, sono le stesse per cui l’adulazione incondizionata verso un quarantenne – che rappresenta un passato glorioso, ma pur sempre passato – viene anteposta alla progettazione del futuro, alla possibilità di crescere e vincere.

Quella per Totti è la tipica ossessione dell’italiano (e del romano) medio per la figura carismatica e autoritaria, di stampo napoleonico, che è così al di sopra delle istituzioni da rimpiazzarle con la propria persona, in carne ed ossa ma creduta immortale, eterna. Dopo il Pupone, le macerie; pensare al futuro non è solo impossibile, non è proprio consentito.

È Roma ad aver plasmato il Francesco Totti uomo e professionista e non, come si crede banalmente, il contrario. Allo stesso modo in cui è la città di Londra, con i suoi valori e la convinzione che le istituzioni siano più importanti dei singoli uomini che si succedono al loro comando, ad aver plasmato l’uomo e il professionista John Terry – figura non scevra di vizi privati, ma dalle grandi virtù pubbliche.

Plasmando il proprio figlio prediletto a sua immagine e somiglianza, la Capitale ha reso Francesco Totti un uomo e un professionista peggiore, animato da sentimenti che non si addicono a chi ha alle spalle una storia sportiva di tale spessore; il prodotto di una città che confonde la veracità con la maleducazione, la genuinità con l’ignoranza. Una città in rovina, presuntuosa e senza vergogna per ciò che è diventata. E Totti non è riuscito a non farsi fagocitare, come uomo e professionista, da una città che ti ingurgita e ti rende una persona peggiore.

Se è vero, come è convinto Kim Rossi Stuart, che la Roma è ferma a quella notte di trentatre anni fa in cui perse ai rigori la finale di Coppa dei Campioni all’Olimpico contro il Liverpool, è altrettanto vero che l’intera città di Roma preferisce cullarsi nel tenero ricordo di un passato glorioso e dei suoi miti – da Alberto Sordi ad Anna Magnani, da Aldo Fabrizi a Francesco Totti – piuttosto che destarsi da un lungo sonno e prendere coscienza di un presente allarmante e di un futuro alquanto cupo. I romani (e i romanisti) potranno anche non accorgersene, ma chi vuole investire per creare lavoro e ricchezza sta già facendo le valigie.