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Si scrive, una volta tanto, per sentimento e nostalgia. Si scrive perché è morto Tomaso Staiti, classe 1932, e cioè l'ultimo esponente memorabile di una destra laica che è esistita, ha contato anche molto, ed è morta a cavallo dei '90 quando il sentimento repubblicano si è sbriciolato in un'inaspettata e ingestibile presa del potere.

Staiti, che era nobile, barone, e aveva la doppia tessera – Msi e Partito Radicale - non è una figurina da raccontare con l'iconografia dell'irregolare e del ribelle minoritario ma il filo d'Arianna che ci conduce a un bivio. Alla sliding door del vecchio Movimento Sociale, quella dove si decise l'intero futuro della destra italiana, fino ai giorni nostri. La più importante. Il momento in cui si dovette scegliere tra le tradizionali e frustrate ambizioni “tambroniane” - l'infinito corteggiamento della Dc, il ruolo di “diga anticomunista” – e un nuovo schema di gioco.

Era il 1984. L'anno della travolgente ascesa di Bettino Craxi, che nell'83 era stato il primo premier incaricato a ricevere nelle consultazioni la delegazione del Msi, come se fosse un “partito normale”, sdoganandolo dalla sua eterna minorità e dalla camicia di forza dell'Arco Costituzionale. Il bivio stava lì, molto evidente a tutti: da una parte la continuità filo-dc e l'inseguimento dei “moderati”, dall'altra una destra laica, repubblicana, modernizzatrice, che coltivasse le suggestioni del “rosso e nero” di Beppe Niccolai, e cioè la "ricomposizione politica del pensiero del Novecento", come si diceva all'epoca. Tomaso Staiti rappresentò il volto di questa seconda possibilità politica: candidato alla segreteria contro Giorgio Almirante, al Congresso di Roma. La mozione aveva un titolo preso da una canzone di Franco Battiato, “Segnali di vita”. Manco venne messa in votazione con una serie di trucchetti. Amen.

La sliding door si chiuse in quel momento lì e la destra rimase quella che sappiamo. Tutto il resto venne di conserva. Tomaso Staiti continuò a guardarlo, e ad affrontarlo, con la lucidità del politico che conosce la storia.

Vide crescere il tumore dei rapporti tra politica e affari alla fine degli '80. Lo denunciò entrando in collisione col potentissimo Ignazio La Russa. Vide i limiti del berlusconismo, la ricomposizione di vecchi assetti consociativi, e resistette alle sue tentazioni – lui, milanese, ricco, pieno di relazioni, che avrebbe potuto piazzarsi di sicuro in qualsiasi corte di ciambellani – e li denunciò con metafore sferzanti: "Ma li vedete come vanno vestiti? Con questi gessati Palermo da finti gangster anni Trenta".

Vide, anche, la piccola finestra di opportunità politica che si aprì all'epoca di Futuro e Libertà, ed ebbe il coraggio di cambiare idea sul vecchio arcinemico interno, Gianfranco Fini, schierandosi dalla parte sua (insieme ad altri firmatari dell'antica "Segnali di vita", fra cui Umberto Croppi, Fabio Granata e Peppe Nanni) e poi assistendo con gran dispiacere allo snaturamento di quell'avventura.

"Il Barone nero", "Il fascista dandy", scrivono oggi i grandi giornali, e in effetti l'aneddotica si presta a fare di Staiti il santino dell'irregolare, da quando nell'89 si sfilò l'anello nobiliare e in Transatlantico diede due ceffoni a Giovanni Goria dandogli del bancarottiere e del falsario, a quando già parlamentare si ruppe una gamba lanciandosi col paracadute.

Però Staiti era tutt'altro che un santino. Era una di quelle figure lucide e appassionate che hanno animato la politica novecentesca mettendoci idee, capacità di comprensione, analisi, letture, e anche il tipo di progetto che distingue l'amministrazione di condominio dal governo della Polis, e rischiando in proprio carriera e poltrone. Che oggi se ne ricordino più i tratti “scandalosi” che il pensiero non è che la riprova della distanza tra la cifra maclaichiettistica della nuova politica e la dignità, controversa ma innegabile, della vecchia. Non gli faremo questo torto unendoci al coro.

Staiti, coerentemente con il suo pensiero laico, ha proibito ai suoi di celebrare esequie religiose in chiesa. In una vecchia intervista, aveva detto che sulla sua tomba avrebbe voluto il titolo di una canzone di Edith Piaf, "Non, je ne regrette rien". Speriamo che qualcuno se ne ricordi, la frase gli si attaglia perfettamente.