Un leader crea altri leader. Li crea direttamente e indirettamente, volutamente e involontariamente. Non c'è dubbio. Se la Gran Bretagna ha avuto la Thatcher e noi Berlusconi, sta a Matteo Renzi rompere il cerchio e non essere, rispetto al Cav, quel che Blair è stato rispetto alla Lady di Ferro.

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 Alla Convenzione Nazionale del Partito Democratico, Matteo Renzi ha giustamente affermato che un partito, un partito vero, deve considerare i suoi elettori in quanto persone e non in quanto codici fiscali e consumatori. Ha anche, giustamente, affermato che un leader non crea seguaci ma altri leader. Poi ha citato, come esempio tematico e politico, un bel film cileno, "NO. I giorni dell'arcobaleno" di Pablo Larrain, che racconta di come nel 1988 in Cile i partiti democratici riuscirono, grazie a un pubblicitario, a vincere il referendum popolare sull'incarico presidenziale a Pinochet. Riuscirono a far trionfare il NO e a levargli, quindi, la carica, con una campagna elettorale che avvinse i cileni al tema del sogno di un futuro e di un paese diverso, raccontato con allegria. Il sogno di un futuro e di un paese diverso – raccontato con dinamicità ed euforizzazione emotiva – è, infatti, il tema renziano per eccellenza. Tema perfetto, peraltro.

Un leader crea altri leader. Li crea direttamente e indirettamente, volutamente e involontariamente. Non c’è dubbio. Da anni in Inghilterra si è affermata la teoria per la quale il New Labour di Tony Blair sia stato possibile in quanto epifenomeno non tanto delle strategie, ma quanto delle modalità emozionali e simboliche del "thatcherismo". Non solo, come sostengono alcuni, Blair avrebbe “mutuato” alcuni argomenti ideologici della Lady di ferro, ma, in termini più profondi, Blair ha certamente percorso la sua autostrada trasformativa del Regno Unito potendo usare strumenti simbolici – quali lo “scardinamento” delle identità e modalità sociali pregresse del Paese e il “leaderismo” pragmatico – precedentemente sperimentati e affermati proprio dalla Thatcher.

Il discorso di Renzi aveva come tema l'ultimo ventennio. Un tema convitato non solo nella convenzione del PD, ma in tutta la dialettica politica di questi mesi. In Italia “ventennio” è un brand. Ma non è un marchio registrato. È un formato della nostra memoria storica, una memoria di forma. Sembra quasi che non si vedesse l’ora di tirarne fuori un altro, di cui parlare, del quale tirare le somme, al quale appellarsi.

Le rivoluzioni a livello immaginario si basano su di un paradosso temporale. Nella memoria rivoluzionaria il tempo storico si accorcia. L’inizio del tempo storico si rifonda. La storia inizia ex-novo e reinizia con l’inizio della rivoluzione – ciò che c’era prima è solo un “pre”. Il tempo pre-rivoluzionario diventa una oscura età antecedente all’età attuale, quella delle verità. E così va col Berlusconismo.

Ma si dirà: "Berlusconi non ha fatto nessuna rivoluzione!". Voleva farne una, la rivoluzione liberale, che probabilmente sentiva in termini istintivi, forse, ma che non capiva in termini teorici e non perseguiva in termini morali. Come se uno volesse vincere un Oscar girando un film... con gli amici... nella casa al mare... facendoci recitare i parenti... il padrino di battesimo... i compagni di scuola... e non ultima la bonazza del paese per rimorchiarsela. Eppure in questo modo sono nati capolavori della storia del cinema. Proprio su questo hanno scommesso molti protagonisti del primo berlusconismo, che la rivoluzione liberale sapevano pensarla e volevano attuarla, a prescindere dalla credibilità del capo.

Berlusconi la rivoluzione l’ha compiuta: non quella liberale, un’altra. Ha inciso sulle logiche di trasformazione ideologica del paese, in modo irreversibile. Ha sradicato tutte le verticalità identitarie della sensibilità culturale italiana. Il berlusconismo è stata la leva – o il piede di porco, a seconda dei punti di vista – che ha lubrificato l’ingresso dell’immaginario italiano nel binario della contemporaneità, facendolo scartare via dal binario morto delle identità fisse e sclerotizzate della tarda modernità socio-culturale dell’Occidente. Il sogno berlusconiano proiettato nei media era il sogno dell’azzeramento delle distanze. Distanza del povero dalla ricchezza, dell’insicuro dalla sicurezza, dell’infelice dalla felicità, del tartassato dalla libertà, del potente dall’immortalità. È il sogno come pensiero archetipo dell’indistinto contemporaneo, un simulacro nel quale siamo tutti immersi e nel quale tutto è il contrario di tutto, e tutto può trasformarsi simultaneamente nel suo inverso.

In termini di politici la rivoluzione berlusconiana è stata straordinaria. Le identità politiche si sono riformulate in logiche di standardizzazione di prodotti simbolici, sempre meno densi e profondi, sino a compiersi in una sovrapproduzione di idee/gadget – prive di problematicità interpretative, per consumatori politici rapidi e distratti. Idee/gadget facilmente distribuibili, a basso costo, di facile memorizzazione. Berlusconi ha contribuito a traghettare il paese dalla politica del prodotto politico “come punto di arrivo di un pensiero identitario” al prodotto politico come migliore offerta ideata e prodotta in base alle istanze di target ipotetici di consumatori politici predeterminati e prefigurati nelle logiche psicografiche del marketing strategico. Non è, come dicono alcuni, una politica senza contenuto (l’assenza di contenuto sarebbe già un contenuto) ma è piuttosto la politica del non contenuto. Un non contenuto che in quanto tale può contenere tutto e chiunque, a prescindere da tutto e da tutti. Berlusconi ha cavalcato il passaggio dall’era dei prodotti politici culturali referenziali, a quella dei prodotti politici autoreferenziali. Dall’era della politica attraverso la comunicazione, a quella della politica in quanto comunicazione.

L’eredità indissolubile dell’era Berlusconi sarà lo spostamento del senso e del significato dalle idee come presupposto divulgabile mediante la comunicazione, alla comunicazione come idea politica... sic et simpliciter. Ma attenzione: questa non è una invenzione di Berlusconi. Silvio è semplicemente stato lo sciamano che ha permesso allo spirito del tempo di manifestarsi, diventandone poi il custode e ideologo, o cane da guardia, della sua estetica totalizzante, pervasiva. Berlusconi filosofo? No, istintivo. Un commerciante del senso che investe nella bolla della borsa dei significati. Finché non scoppia. Ma è scoppiata? No, anzi, gode di ottima salute, si gonfia sempre più.

Quando Matteo Renzi alla convenzione del PD ha citato il bel film cileno, ha commesso un errore. Quel film racconta una grande vittoria democratica, certo, racconta la forza di volontà di chi ha vinto contro il potere nonostante fosse certo della sconfitta, certo, ma non è un film né gioioso, né allegro. È un film dolente. Per capire il tema di una narrazione – nella vita, come in politica, come nel cinema, come in psicologia, come, quindi, innanzi ad un film – bisogna capire e interpretare il tema del protagonista. Il protagonista di quel film, un pubblicitario di talento, è un uomo consapevole del fatto che per sconfiggere il dittatore non bisogna rinfacciargli la sua storia politica, né tanto meno articolare argomenti politici, ma bisogna, piuttosto, coinvolgere e far identificare il pubblico in un tema fondamentale e imprescindibile. Il tema è, appunto, il sogno. Il protagonista applica alla politica lo stesso modello narrativo che fin lì aveva applicato alle pubblicità della Coca Cola, e che poi, nell’ultima dolorosa scena, applicherà alle telenovelas di consumo industriale. Il protagonista sa che con la sua campagna elettorale in favore del NO a Pinochet tutto cambia. Da quel momento la politica sarà un indistinto pubblicitario, dove non si circuiteranno logiche e culture politiche, ma solo e semplicemente valori archetipici emotivi e di facile consumo. Come è... appunto... il sogno.

Il sogno non è una categoria politica fattuale, ma è una categoria simbolica, astratta, indistinguibilmente fusa e diffusa in ogni essere umano, ed alla portata di chicchessia, spin doctor, pubblicitario e propagandista politico. Di destra, di sinistra, di centro, o – per non usare più queste vecchie e sterili ex categorie – X o Y o XY che sia, il sogno è idea/gadget spendibile da qualsiasi politico, in funzione di qualsiasi consumatore politico. Con il sogno chiunque sappia far sognare può vincere, a prescindere da cosa poi farà, da chi è e da chi sarà. Una compiuta eredità del berlusconismo è stata quella della produzione e distribuzione del sogno come valore di scambio politico. Una emozione che dice tutto e niente, tutto e il contrario di tutto. È l’era della polisemia del prodotto politico come una bolla simbolica autoreferenziale, come autoreferenziale è ogni essere umano/elettore.

Il sogno è il partito di tutti e per tutti. Sul palco dei sognatori salgono insieme contestatori e potenti, disoccupati e capitani d’azienda, ex amici ed ex nemici, tutti insieme a teorizzare sperare vedere un radioso futuro, senza loghi di partiti alle spalle, ma lanciando OPA sull’unico grande partito compiutamente democratico del paese. Berlusconi andrà via. Il prodotto sogno non è più nella sua disponibilità. L’operazione strategica di moltiplicare i mercati possibili spacchettando il partito in due, tre, quattro, forse non produrrà il risultati sperati. Ora il sogno è in disponibilità di un altro.

Renzi è uomo ricco di doti, in primis il coraggio, e ha in mano questo straordinario oggetto valore simbolico, politico, magico, populistico. Speriamo, quindi, che non sia epifenomeno culturale di un leader che ha compiuto un altro leader, per mezzo delle stesse merci simboliche. Alcuni si augurano, molti altri temono, che la funzione biunivoca Thatcher/Blair stia per ripetersi in Italia. Sta a Matteo Renzi non essere, rispetto a Berlusconi, quel che Blair è stato rispetto alla Thatcher.