Salone del Libro? Forse due sono meglio di uno
Terza pagina
Finalmente posso dirlo. Da torinese, lettrice e appassionata di libri, oltre che da persona che lavora nel mondo dell’arte e della cultura da più di vent’anni (in maniera del tutto indipendente), devo confessare che spesso e volentieri ultimamente, e in tempi non sospetti, ho disertato il Salone del Libro. Questo non solo perché lì dentro, nella confusione e nel caos generale, la cosa che bramavo più ardentemente trovare spesso non era l’ultimo romanzo di grido (che facilmente avevo già), ma l’uscita di sicurezza, ma anche per alcune questioni non così squisitamente personali.
La bufera sul Salone del Libro di Torino, iniziata qualche tempo fa con i procedimenti contro la precedente amministrazione, e finita con la decisione dell’Aie di lasciare Torino per dare vita a una fiera simile a Milano, con conseguenti "diserzioni" da parte di alcuni editori dall’Aie stesso, ha di recente infiammato i dibattiti di intellettuali e non.
Il refrain più comune tra i torinesi è sempre lo stesso: le cose, si dice, nascono a Torino e poi gli altri (più spesso Milano), ce le rubano. Altri si danno invece da fare cercando un colpevole, tra la vecchia e la nuova giunta del Comune sabaudo. Eppure la questione, così posta, non coglie il punto fondamentale: il fatto che il Salone del Libro, così com’è stato fino allo scorso anno, non si possa più concretamente replicare potrebbe non essere proprio una sfortuna. Non per fare i resilienti a tutti i costi, ma questa crisi potrebbe nascondere più di un’opportunità.
Intanto la formula del salone aveva evidentemente bisogno di una solenne svecchiata. Negli ultimi anni la suddetta formula conteneva di tutto: angoli cottura, incontri con politici, personaggi televisivi e più o meno note popstar.
Bastava farsi un giro tra gli stand e non poteva che venire in mente la vecchia battuta di Troisi: io sono solo a leggere, ma voi a scrivere siete proprio in tanti. Ma tanti. Dall’ex ct della nazionale fino alle star nascenti della cucina, non c’era personaggio che non avesse prodotto qualche indispensabile capolavoro letterario, il quale puntualmente veniva celebrato in fiera, con lo scopo evidente di stampare il numero più alto possibile di biglietti.
Come contraltare, in location accuratamente lontane dal clou della fiera, erano spesso in programma altri eventi per soli intellettuali. Dove però la frequentazione per super-colti, variando dall’ordinario portaborse di docente al pensionato disperato in cerca di una valida alternativa alla briscola del sabato pomeriggio, avrebbe fornito più di uno spunto per un’ottima puntata di Quark.
Con questo metodo il Salone del Libro faceva ogni anno il pieno di mangiatori di pizze, appassionati di fantacalcio, fans di popstar e aspiranti chef.È vero che tutto ciò (soprattutto le cose più popolari) aveva innegabili ricadute positive sul territorio. Ma posto che, per carità, lungi da me avere qualcosa contro la cucina, il calcio o le pop star e i pensionati disperati (sui portaborse non dico nulla), e che lo stereotipo del lettore introverso e schivo ha un suo perché, la questione è ancora un’altra. E ha a che fare, tra le altre cose, con il fatto che non basta contare i libri venduti per pensare di aver fatto un favore al mondo della cultura – e anche dell’editoria.
Insomma, siamo sicuri che una fiera così organizzata sia un successo (= arricchimento culturale, ma anche aumento di introiti e crescita reale del settore) per il mondo del libro? Occhio (ma è evidente): il fatto che qualcuno faccia la fila per vedere Ligabue non significa affatto che il settore dell’editoria abbia guadagnato uno o meglio più affezionati lettori.
La formula della fiera così com’è stata fino ad oggi non comporta infatti soltanto la confusione tra cultura e intrattenimento, punto che sarebbe interessante approfondire. Ciò che manca è anche - e soprattutto - la distinzione, per altro elementare, tra una fiera dedicata a un settore industriale preciso e delimitato, studiata con lo scopo di portare ad un ampliamento e crescita di quel settore stesso, e un evento di grandi dimensioni che punti a coinvolgere il maggior numero di persone possibile per una ragione qualunque e sostanzialmente a caso. Siamo sicuri che la seconda formula sia la più efficace?
La risposta è ovviamente no. Ma volendo essere propositivi, e prendendo in considerazione alcuni ottimi suggerimenti, vorrei proporre uno spunto di riflessione.
Da decenni Milano e Torino hanno una propria fiera di arte contemporanea. Milano tutti gli anni promuove Miart, mentre a Torino c’è Artissima. Nessuna delle due fiere ruba pubblico all’altra, sebbene una delle due (non dico quale per non essere tacciata di campanilismo), essendo tra le altre cose più incentrata sul settore specifico del contemporaneo e più internazionale, ha fama di essere più interessante dal punto di vista culturale e attenta alle novità su scala appunto internazionale, mentre l’altra ha un’impostazione più decisamente commerciale (senza nulla togliere all’importanza di questo aspetto). Mutatis mutandis, a mio parere, il confronto con quanto accade da anni nel mondo dell’arte con queste due fiere potrebbe fornire al mondo del libro un’utile ispirazione.
Questa potrebbe essere un’ottima occasione per ripensare il Salone del Libro di Torino con una maggiore attenzione alle novità, anche tecnologiche, come il mondo dell’editoria digitale e soprattutto Amazon, e magari anche con un occhio al mondo dell’arte e a quello del design (come per altro suggeriscono voci autorevoli). E, letteralmente alla fine della fiera, l’occasione di cambiamento potrebbe offrire più vantaggi che svantaggi, trasformandosi in occasione di crescita e miglioramento.
Certo, un tale cambiamento potrebbe forse indispettire qualche esponente del mondo dell’editoria più tradizionale.
Ma in un mondo sempre più tecnologizzato e attento alle novità, c’è da chiedersi se il domani dell’editoria si trovi là dove è stato fino ad ora il suo passato, o se invece possiamo pensare a un futuro nuovo e diverso per questo settore.
Sarebbe una gran bella cosa se Torino, in modo consono con la propria nobile vocazione e anima di città laboratorio, diventasse il luogo in cui si pensa, e magari si promuove e produce, questo futuro.