Rolling Stones

Per ogni musicista la Gran Bretagna è come la Terra Santa. Forse anche più che negli Stati Uniti, è lì, sotto le effigi di Sua Maestà Elisabetta, che è praticamente nato tutto, che quasi ogni genere musicale è stato sperimentato e ha trovato tra i suoi migliori e più noti interpreti. Dai Beatles e i Rolling Stones fino a semisconosciuti ma talentuosi gruppi che in qualsiasi altro Paese europeo sarebbero un monumento alla musica nazionale.

Seguendo una tradizione che dagli anni ‘60 in poi non si è mai interrotta, tutt’oggi la Gran Bretagna sforna artisti, dischi e canzoni che scalano classifiche e indicano quali saranno i trend futuri. Come per l’Italia enogastronomia e alta moda sono molto più che due settori economici, in Gran Bretagna la discografia è molto più che un mercato. La produzione musicale britannica è ormai un pezzo del DNA di buona parte della popolazione inglese scandendone di decennio in decennio, da quasi mezzo secolo a questa parte, la vita. Cosa succederà al mercato musicale britannico nel caso in cui dovesse vincere il Sì al referendum sull’uscita dall’Ue?

Prima un po’ di numeri. L’industria discografica inglese, secondo la Bpi, la “Confindustria” fonografica britannica, solo in “vendita” di dischi e video musicali genera un giro d’affari pari a 730 milioni di sterline (ultimi dati disponibili aggiornati al 2013). Per quanto riguarda il mercato europeo, nei 5 Paesi più importanti dell’Ue vengono venduti tra il 17 e il 20% dei dischi prodotti in Gran Bretagna. Nel 2015, il mercato discografico inglese in Europa era così ripartito: Paesi Bassi (33,4%), Italia (19%), Svezia (16,7%), Germania (16,4), Francia (15,5%), Spagna (12,5), come spiega sempre la Bpi.

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Geoff Taylor, organizzatore dei British Music Awards e capo della Bpi ha spiegato all’Huffington Post che lo scorso anno un album su quattro venduto in Europa era di un artista inglese e un quarto dei guadagni delle label inglesi proviene dal mercato europeo. Un sondaggio effettuato tra i discografici britannici ha mostrato che il 78% di loro è contrario all’uscita dall’Ue e che il 90% delle etichette teme che la Brexit avrà un impatto negativo sui diritti di autore.

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La preoccupazione dei discografici emerge in un articolo di Pichfork proprio sul tema Brexit e Musica. A spiegare le implicazioni del leave per l'industria musicale britannica è Ticketbis, piattaforma internazionale per l’acquisto di biglietti per concerti. Innanzitutto, la Brexit avrebbe un impatto dal punto di vista fiscale. Attualmente non bisogna pagare IVA o dazi doganali su importazioni ed esportazioni che avvengono all'interno dell'Ue. Se il Regno Unito uscisse, il costo d'acquisto di dischi e merchandise online potrebbe aumentare per le persone che vivono nel Regno Unito e comprano in Europa e viceversa.

Come è noto, inoltre, tra digitalizzazione e nuove modalità di fruizione, la vendita di dischi oggi rappresenta solo una parte minoritaria del business della musica. Ben più consistente sarebbe infatti il danno dell’eventuale Brexit all’attività live - principale fonte di guadagno - di migliaia di band e singoli artisti in Gran Bretagna così come del resto del mondo. L’uscita dalla Ue in questo caso sarebbe un vero e proprio boomerang. Se dovesse verificarsi, i musicisti inglesi avranno bisogno di un visto per andare in tournée in Europa e, dunque, di un vero e proprio contratto di lavoro: praticamente, servirà un promoter che dovrà fare un’offerta formale alla band per esibirsi all’interno dell’area Schengen. La previsione di Ticketbis è che il lavoro burocratico extra renderà gli organizzatori di concerti europei meno inclini a preoccuparsi per gli artisti minori.

Un visto per l'Area Schengen costa 60 euro a persona. Per un gruppo di quattro membri, più un autista e un manager (o un roadie), vuol dire un extra di 360 euro sui costi del tour. Questa tassa non sarebbe nulla per i Rolling Stones, ma - osserva Ticketbis - andrebbe a pesare sul budget dei giovani gruppi indipendenti o emergenti, vera forza dell’industria musicale britannica.

Non saranno soltanto i visti a causare problemi, spiega ancora Ticketbis. Le norme relative alle tournée richiedono un documento chiamato "carnet", che consente di importare e poi esportare la propria strumentazione senza dover pagare le tasse. Al momento, la normativa britannica non ne richiede uno per l'UE, ma qualora il Regno Unito dovesse uscire, comincerebbe ad averne bisogno. “Questo comporterebbe un coinvolgimento maggiore di persone nelle azioni dei gruppi in tournée, nel controllo dei carnet e dei visti in ogni fase del tour, togliendo tempo prezioso e risorse dall'attività di preparazione di uno spettacolo”. Conclude Ticketbis: “Le persone che accuseranno maggiormente il colpo saranno gli artisti minori, quelli che contano sulle tournée in Europa o fanno leva sui Festival europei per guadagnare visibilità o per farsi le ossa al di fuori del proprio paese d'origine per la prima volta. Questi artisti potrebbero non riuscire ad affrontare i viaggi più cari, i costi dei visti e potrebbero non disporre delle risorse per districarsi così facilmente dal punto di vista burocratico. E, naturalmente, i costi crescenti interesserebbero i fan, sia che essi seguano i propri artisti preferiti in tour o ai festival”.

Considerando che il 25% dei profitti delle case discografiche inglesi viene reinvestito in artisti emergenti, la Brexit rappresenterebbe un duro colpo per l’industria discografica inglese, bacino inesauribile di nuovi talenti. Un settore, quello del mercato musicale inglese, che solo ora comincia a rialzare la testa dopo essere stato travolto per oltre un decennio dall’esplosione dei new media, dei social network e della fruizione digitalizza, e che protrebbe oggi rimanere schiacciata dalla miopia eurofobica di Nigel Farage, Boris Johnson e i profeti del “Leave”.

È chiaro che l’omicidio di Jo Cox getta un'ombra funesta sul significato epocale del referendum sulla Brexit, che non riguarda solo il futuro dei rapporti tra la Gran Bretagna e l’Europa, ma la natura e i pericoli di un risorgente nazionalismo come vero e proprio “problema esistenziale” della democrazia europea. Il caso del mercato musicale, se non è rappresentativo di questa questione epocale, è però una delle tante dimostrazioni di quanto poco la scelta nazionalista, protezionista e isolazionista della Brexit difenda gli interessi reali dell’economia britannica.